mercoledì 22 giugno 2011

LE PAROLE, Eugenio Montale

Le parole
se si ridestano
rifiutano la sede
più propizia, la carta
di Fabriano, l'inchiostro
di china, la cartella
di cuoio o di velluto
che le tenga in segreto;
le parole
quando si svegliano
si adagiano sul retro
delle fatture, sui margini
dei bollettini del lotto,
sulle partecipazioni
matrimoniali o di lutto;
le parole
non chiedono di meglio
che l'imbroglio dei tasti
nell'Olivetti portatile,
che il buio dei taschini
del panciotto, che il fondo
del cestino, ridottevi
in pallottole;
le parole
non sono affatto felici
di essere buttate fuori
come zambracche e accolte
con furore di plausi
e disonore;
le parole
preferiscono il sonno
nella bottiglia al ludibrio
di essere lette, vendute,
imbalsamate, ibernate;
le parole
sono di tutti e di nessuno
si celano nei dizionari
perché c’è sempre il marrano
che dissotterra i tartufi
più puzzolenti e più rari;
le parole
dopo un’eterna resa
rinunziano alla speranza
di essere pronunziate
una volta per tutte
e poi morire
con chi le ha possedute.


sabato 18 giugno 2011

LO STRANO CASO DEL CANE UCCISO A MEZZANOTTE, Mark Haddon

Wellington, il cane della signora Shears, è stato ucciso con un forcone a mezzanotte e sette minuti. Christopher, un ragazzino di quindici anni,  si trova sul luogo del delitto e viene accusato di essere il colpevole. Inizia un gran trambusto e qualcuno chiama la polizia. Christopher, preso per un braccio, colpisce un poliziotto e viene portato in questura dove riceve una diffida, ma viene rilasciato grazie all’intercessione del padre. Una volta uscito Christopher promette a se stesso di trovare l’assassino di Wellington. Inizia così l’indagine; e inizia così questo libro, che è il diario di Christopher, il libro delle sue investigazioni e riflessioni. Nel corso delle indagini Christopher scoprirà chi ha ucciso Wellington, ma allo stesso tempo farà delle scoperte sconvolgenti e destabilizzanti sulla sua famiglia. Quello che sembrava un romanzo giallo si trasforma così in un romanzo di formazione. Infatti, in conseguenza a tutte queste scoperte, Christopher si metterà in viaggio per l’esperienza più incredibile e formativa che abbia mai fatto: un viaggio da solo da Swindon a Londra. Christopher non è un ragazzo come tutti gli altri e, per lui, un piccolo viaggio nella grande metropoli rappresenta davvero un’incredibile odissea. Vediamo perché. Christopher John Francis Boone ha 15 anni, 3 mesi e 3 giorni e conosce a memoria i nomi di tutte le nazioni del mondo e delle loro capitali nonché ogni numero primo fino a 7507. A poco a poco scopriamo altre cose di lui: ama il rosso e odia il giallo e il marrone, non mangia se nel suo piatto i cibi sono entrati in contatto tra loro, odia i romanzi e non capisce le metafore, ama l’Apollo, la scienza, le cartine stradali e la matematica, non capisce le espressioni facciali e detesta essere toccato. Tutte queste sue particolarità sono in realtà le conseguenze della sindrome di Asperger, una forma di autismo da cui il ragazzo è affetto. Christopher ha un’intelligenza superiore alla media, è un genio in matematica e ha una memoria di ferro, ma non sa rapportarsi con il mondo circostante: ha paura degli estranei, diventa violento se qualcuno lo tocca, odia la folla e spesso non capisce le persone. Infatti le persone non sono logiche, le persone sono imprevedibili, usano il linguaggio del corpo e parlano per modi di dire. Per questo un piccolo viaggio sarà per Christopher un’avventura unica, la più grande esperienza di vita mai fatta, in cui dovrà imparare a controllare repulsioni, angosce e fobie.
Mark Haddon riesce genialmente a riportare sulla pagina i processi mentali di un ragazzo autistico e a farci entrare in prima persona nella sua struttura mentale. Questo avviene, da un lato, attraverso la rappresentazione grafica degli schemi e delle immagini che il cervello di Christopher memorizza ed utilizza e, dall’altro, attraverso l’esplicitazione dei procedimenti logici-deduttivi con cui procede il suo ragionamento e da cui derivano le sue scelte ed azioni. Leggendo questo romanzo il lettore entra nella realtà mentale parallela di Christopher, fa un’esperienza empatica di identificazione mentale in un individuo autistico. L’effetto è sicuramente molto verosimile. Se in alcuni momenti l’identificazione è molto divertente, in altri momenti il lettore proverà straniamento e difficoltà ad accettare questa visione del mondo. Sicuramente, in ogni caso, si tratta di un’esperienza altamente stimolante perché, guardando il mondo attraverso gli occhi di Christopher, potremmo forse accorgerci di tutte quelle cose che diamo per scontate nel processo di relazione e che invece non lo sono affatto. Infine, un romanzo commovente. La rigida logica di Christopher sembrerebbe bloccare l’emotività del romanzo ma, in realtà, la sensibilità del lettore non può far altro che oltrepassare quel muro di anaffettività per arrivare a sentire profondamente il valore di quella capacità di comprensione globale ed emotiva delle cose che, nonostante in individui come Christopher manchi, contraddistingue l’umanità.

martedì 14 giugno 2011

QUEL CHE RESTA DEL GIORNO, Kazuo Ishiguro


Mr Stevens, maggiordomo di un’importante casata inglese, approfitta di un viaggio in macchina nella campagna circostante per ripensare la propria vita, fino ad allora dedicata interamente al lavoro. Attualmente Stevens lavora al servizio di un signore americano, Mr Farraday, che ha comprato la meravigliosa residenza di Darlington Hall e, compreso con essa, ha acquisito anche il suo inglesissimo maggiordomo. In concomitanza di una sua lunga assenza da casa il padrone accorda a Stevens il permesso di fare un viaggio con la sua Ford, offrendosi di pagare lui la benzina, a condizione che il maggiordomo si prenda una pausa di riposo e di svago. Stevens decide di andare a trovare Miss Kenton, l’antica governante, sposatasi e allontanatasi da Darlington Hall ormai da una ventina d’anni. Questo viaggio sarà finalmente la sua occasione per riflettere e ripensare al suo passato. Stevens ha passato gli anni migliori della sua vita (lavorativa e non) nella famosa residenza di Darlington Hall al servizio del gentiluomo inglese Lord Darlington. Quelli sono stati per Stevens momenti di grande splendore, infatti, all’apice della carriera, si è trovato a dar sfoggio della sua professionalità in una residenza che ospitava spesso importanti personaggi politici provenienti da tutt’Europa. Per Stevens a quei tempi non esisteva null’altro che il dover svolgere il proprio mestiere con “dignità”; su questo concetto, nel corso del viaggio, il maggiordomo avrà occasione di riflettere e così noi vedremo questa “dignità” concretizzarsi in una serie di principi, tanto onorabili quanto poco umani. Primo fra tutti, la totale ed incondizionata fiducia verso il suo datore di lavoro, cosa che porterà Stevens a non prendere posizione davanti ad alcuni ordini moralmente discutibili di Lord Darlington, giustificando in tutti i modi le strane posizioni filo-naziste che il suo padrone stava assumendo. Ma questa non sarà l’unica cosa su cui Mr Stevens terrà gli occhi cocciutamente chiusi. Infatti a poco a poco scopriremo che, mentre il maggiordomo si preoccupava solo di servire al meglio Lord Darlington, la governante, Miss Kenton, tentava in tutti i modi, e invano, di stabilire un rapporto umano con lui. Stevens, barricato dietro la sua tanto onorabile “dignità”, si difendeva dalle emozioni e dagli scossoni della vita, usando il suo contegno e il suo aplombe come scudo. Dai momenti più drammatici, come la morte del padre, ai momenti goliardici (momenti ai quali rimane sempre estraneo vista la sua incapacità di capire e fare battute) Stevens è trincerato dietro la sua impassibilità e la sua compostezza. E così avviene anche nelle situazioni più umilianti, come quando Lord Darlington ed i suoi amici lo interrogano sadicamente su cose che non conosce, o nei momenti di toccante emozione, come quando sente piangere Miss Kenton e rimane paralizzato, non riuscendo a fare nulla per consolarla. Nel suo viaggio nella campagna inglese, e grazie all’incontro con Miss Kenton, Stevens finalmente riuscirà ad aprire gli occhi. E li aprirà per piangere e piangere ancora sul passato che è andato perduto, sul tempo che non torna indietro e sulla sensazione di fallimento che non può più nascondere a se stesso. Stevens si accorge di aver avuto una vita arida, una vita senza amore, non rischiarata nemmeno dalla convinzione di aver dedicato i propri servigi e i propri anni migliori ad un uomo moralmente elevato. La macchia è indelebile, la ferita non può essere ricucita ma, come la sera è il momento più atteso e desiderato della giornata, può forse la vecchiaia essere il momento in cui tirare le fila della propria vita, comprenderla e magari anche cambiarla? Si può davvero arrivare alla comprensione di sé e della propria vita in quell’ultimo momento di luce e pensare di poter mutare le cose in quel breve tempo che ci separa dalla notte eterna?
Questo è l’interrogativo che ci pone Kazuo Ishiguro, scrittore giapponese naturalizzato britannico, in Quel che resta del giorno, romanzo di fama internazionale dal quale, nel 1993, James Ivory ha tratto l'omonimo film con Anthony Hopkins ed Emma Thompson.

domenica 5 giugno 2011

THE TREE OF LIFE, Terrence Malick

L’ultimo attesissimo lungometraggio di Terrence Malick è stato presentato alla 64esima edizione del festival di Cannes e, tra molti applausi e altrettanti fischi, si è aggiudicato la Palma d’oro, eclissando artisti di altissimo livello (Lars Von Trier, Almodovar, Moretti e Sorrentino per citarne alcuni…).
Il film si apre su una tragedia: una madre riceve la notizia della precoce morte del figlio. La disperazione dilaga nella famiglia soprattutto nel fratello maggiore, Jack, uomo ormai adulto che, sconvolto dalla notizia, si addentra in un processo d’introspezione personale e di riflessione universale. La dimensione tragica dell’evento viene subito ridimensionata da una lunga sequenza dedicata al nascere della vita sulla Terra, in cui sono riassunti miliardi di anni attraverso una seria di immagini naturalistiche. L’estrema potenza visiva della sequenza induce alla riflessione cosmologica per creare un viaggio fisico (e metafisico) che ricorda molto quello di Bowman nel finale di 2001: Odissea nello spazio. A questa sequenza segue un lungo flashback sulla storia della famiglia. Nell’America degli anni ’50 un padre irascibile e autoritario (uno spigolosissimo Brad Pitt) e una madre spirituale e amorevole (l’angelica Jessica Chastain) crescono, tra gioie e conflitti, tre figli maschi. Il padre impone regole assurde (che lui stesso non rispetta) ed esige l’obbedienza completa e totale dai figli, mentre la madre li ricopre di amore e speranza, ma è troppo debole per opporsi all’arroganza del marito. Nel corso della loro infanzia i bambini conoscono l’amore, la meraviglia e la gioia, ma incontrano anche il dolore e l’esperienza della morte. Conoscono, in definitiva, l’albero della vita. Questo incontro-scontro con la Natura, madre amorevole ma anche matrigna crudele e insensibile, li porta a formulare dei dubbi sulla giustizia di Dio. Nel finale il film ritorna al presente, ad un presente irreale e metaforico, fuori dallo spazio-tempo: è l’emozionante dimensione dell’eternità, del sempre e del mai, dove la famiglia può riunirsi, ascoltare la voce del cosmo ed essere finalmente in pace.
The tree of life è un film che, fin dalla sua prima apparizione, ha diviso nettamente il pubblico: odio o amore, non ci sono vie di mezzo. Ci troviamo davanti ad un film difficile e raffinato, lento ed emozionante, un tipico esempio di “cinema del silenzio”, dove ciò che conta sono le immagini. La fotografia ed il montaggio sono gli elementi su cui, all’unanimità, questo film è stato proclamato un capolavoro. L’elemento dominante a livello visivo è quello dell’acqua, brodo primordiale dove è nata la Vita, fonte di nutrimento e simbolo di evoluzione nel suo duplice aspetto di distruttrice e di rigeneratrice. Come nel tipico stile di Malick (mi riferisco in primo luogo a La sottile linea rossa) la musica assolve una funzione importante nel suo sovrapporsi alle immagini, accompagnando lo spettatore in un intenso viaggio emotivo; al contrario il parlato è estremamente rarefatto, simbolico (un susseguirsi di frasi fatte e citazioni bibliche) e perfino superfluo.
Esteticamente perfetto, questo film non parla a tutti. Le immagini di Malick parlano alla parte più profonda di ognuno di noi, al nostro spazio più intimo, dove risiede il nostro rapporto con il Divino. Anche se Malick parla di Dio e cita la Bibbia, non si tratta di un film religioso, ma di un film spirituale, umano, terrestre, cosmico; un film sul legame profondo e fraterno che accomuna tutti gli esseri viventi di questo Pianeta e sull’importanza dell’amore: «se non ami, la tua vita passerà in un lampo».
Tutto il film è basato sul binomio Natura – Grazia. Prima della comparsa dell’uomo sul mondo dominava la Natura, l’istinto e l’inconsapevolezza, ma l’uomo è riuscito a superare lo stadio naturale, per acquisire un livello di consapevolezza su se stesso e sul mondo che l’ha portato a conoscere la Grazia. La Grazia si è manifestata in diverse forme durante la lunga storia dell’umanità: è stata mito, religione, filosofia, arte, scienza… In qualsiasi forma si sia mai manifestata la sua vera realtà si riconosce sempre e Malick ce la fa toccare con un dito, ricordandoci che: «ci sono due vie per affrontare la vita, la via della Natura e la via della Grazia, sta a te scegliere quale delle due seguire».