martedì 31 maggio 2011

NON LASCIARMI, Kazuo Ishiguro


Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro è un romanzo ambientato in Inghilterra, patria adottiva dello scrittore, e cronologicamente situabile in un presente irreale che non avremmo mai voluto nemmeno ipotizzare. Già dalle prime pagine del romanzo la voce narrante si svela: si chiama Kathy H., ha trentun’anni e lavora come “assistente”. Di questo lavoro non sappiamo granché, se non che gli “assistenti” lavorano insieme ai “donatori”. Chi sono queste due categorie di persone? Lo scopriremo a poco a poco seguendo il racconto autobiografico di Kathy, il suo viaggio alla riscoperta del passato.
Kathy ricorda la sua infanzia, trascorsa in un fantastico college, Hailsham, dove gli studenti passavano il tempo dipingendo, scrivendo poesie, facendo sport, studiando filosofia, arte e letteratura. Le attività proposte dal college si dividono tra quelle che stimolano la creatività e la libertà d’espressione dei ragazzi e quelle che tengono il fisico in salute. Fin qui tutto normale ma poi, a poco a poco, iniziamo a percepire qualcosa di strano in Hailsham. Nessuno dei suoi abitanti, ad esempio, ha mai avuto alcun tipo di contatto col resto del mondo né ha mai saputo che cos’è una famiglia: gli studenti sono sempre stati abituati a cavarsela da soli, aiutandosi gli uni con gli altri, sotto la costante sorveglianza dei tutori. Kathy e i suoi amici sono vissuti in questo ovattato ed asettico mondo fino ai 16 anni ma, fin da piccoli, ne hanno percepito le stranezze e le incongruenze; così hanno tentato di indagare, cercando di cogliere indizi sul proprio destino nel “detto e non detto” dei tutori. Questa indagine prosegue finché una tutrice, Miss Lucy, contrariamente alle direttive del college, non mette definitivamente  le cose in chiaro: «Diventerete adulti, poi, prima di invecchiare, ancor prima di diventare persone di mezz’età, comincerete a donare i vostri organi vitali. Ecco per cosa siete stati creati, ciascuno di voi». La rivelazione non ha un forte impatto sulla vita dei ragazzi che, pur senza parlarne e senza avere mai avuto le idee chiare in proposito, inconsciamente avevano da sempre percepito un’eventualità simile. Così, senza dare troppo peso a questa devastante scoperta, i ragazzi continuano ad andare avanti, giorno dopo giorno, come degli adolescenti qualsiasi: completamente assorbiti dalla propria vita, dall’amore e dall’amicizia.
Kathy ricorda con rimpianto i suoi migliori amici: Ruth e Tommy. I tre ragazzi crescono insieme e un’affinità speciale sembra legare Kathy a Tommy finché, agli inizi dell’adolescenza, Tommy non si fidanza con Ruth. È l’inizio di un triangolo amoroso che si protrarrà negli anni, anche dopo Hailsham, quando i ragazzi si trasferiranno insieme nei Cottages. L’immobilismo rassegnato di queste dinamiche sentimentali si interromperà solo con la partenza di Kathy dai Cottages. Da quel momento in poi l’armonia sarà rotta e i tre amici si rincontreranno solo nei drammatici momenti finali delle donazioni.
Questo romanzo è in primo luogo la struggente storia di un amore che si consuma negli anni e che vive di speranze impossibili, ma è anche un dramma visionario, oscuro e potente, in cui vediamo l’egoistica società dell’uomo spingersi ai limiti dell’etica, creando mostruosità ed ingiustizia. Al tempo stesso Non lasciarmi è anche un viaggio nella solitudine e nella disperazione che ogni essere umano si porta dentro: la fragilità della vita è infatti un’ombra che minaccia di distruggere, presto o tardi, tutto ciò che la vita ha costruito. La creatività e l’amore sembrano essere, per i ragazzi di Hailsham, la chiave per dare una svolta positiva alla propria vita, per ottenere concretamente un “rinvio” della propria morte; in realtà, più che un aiuto tangibile, con l’amore e con la creatività i ragazzi hanno avuto i mezzi per condurre un’esistenza dignitosa e consapevole, oltre che la possibilità di tramandare la propria storia.
L’interrogativo sorge spontaneo: perché nel mondo di Ishiguro non esiste la ribellione? Perché nessuno si sottrae a questo trattamento? I ragazzi di Hailsham non sono degli sprovveduti, degli ignoranti: conoscono Shakespeare e la filosofia, sanno bene cos'è l’umanità. Forse il perenne stato di precarietà, di isolamento e di ignoranza in cui sono stati allevati e cresciuti non gli ha dato la consapevolezza dei loro diritti di esseri umani; o forse questo stato li ha portati proprio all’accettazione del loro destino di “cloni”, così come ogni essere umano accetta ed affronta la propria morte. Il terribile sfogo finale di Tommy sembra essere finalmente il preludio ad un cambiamento, ma alla fine prevale sempre la rassegnazione al proprio destino.
Dicono che per ogni uomo l’infanzia finisca nell’esatto momento in cui avvenga la scoperta della propria morte. Lo stesso, in maniera più crudele e spietata, è successo ai ragazzi di Hailsham: «È come passare davanti ad uno specchio davanti al quale sei passata ogni giorno della tua vita, e che all’improvviso riflette qualcos’altro, qualcosa di strano e inquietante».

mercoledì 25 maggio 2011

LA VITA IN VERSI, Giovanni Giudici

Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l'evidenza dei vivi.

Ma non dimenticare che vedere non è

sapere, nè potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.

Nel sotto e nel soprammondo s'allacciano

complicità di visceri, saettano occhiate
d'accordi. E gli astanti s'affacciano

al limbo delle intermedie balaustre:

applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime - l'infame, l'illustre.

Inoltre metti in versi che morire

è possibile a tutti più che nascere
e in ogni caso l'essere è più del dire.

 

Giovanni Giudici 
(Porto Venere, 26 giugno 1924 – La Spezia, 24 maggio 2011)

POSSESSIONE, UNA STORIA ROMANTICA, Antonia S. Byatt

Roland Michell è un ricercatore del Prince Albert College di Londra e, come ogni giovane studioso, conduce la sua modesta esistenza completamente assorbito dalla ricerca letteraria. La passione per l’opera del poeta vittoriano inglese Randolph Henry Ash sembra essere l’unica cosa che lo riscatta dal torpore di una vita di rinunce e frustrazioni. Oltre la letteratura, la vita di Roland si può racchiudere nel quadretto del suo squallido e umido appartamento seminterrato che odora di pipì di gatto e dove vive con la fidanzata Val, a cui è legato ormai solo dall’abitudine e dalla dipendenza economica. Un giorno, sfogliando un volume di Vico appartenuto ad Ash, Roland trova alcuni manoscritti inediti del poeta e, tra questi, due abbozzi di lettere per una donna misteriosa. Nel giro di pochi minuti prende la decisione più importante della sua vita: riconsegna il volume e tiene per sé le lettere, nascondendo a tutti il suo segreto. Dopo alcune ricerche Roland ipotizza che la donna misteriosa sia la poetessa vittoriana Christabel La Motte e, procedendo nella sua indagine, decide di consultare un’esperta in materia: è così che entra in scena la dottoressa Maud Bailey, l’unica persona che Roland deciderà di mettere al corrente della sua scoperta. I due studiosi in poco tempo riescono a ritrovare la corrispondenza segreta tra i due poeti: infuocate lettere d’amore che narrano la nascita di una passione bruciante e ineluttabile. Roland e Maud sanno che questa scoperta potrebbe rivoluzionare l’interpretazione dell’opera di entrambi i poeti e si guardano bene dal metterne al corrente amici, colleghi e professori, iniziando una segreta collaborazione basata sull’investigazione delle opere letterarie e la ricerca di indizi nei luoghi dove Christabel e Randolph hanno vissuto e viaggiato. La magica intesa che si crea tra i due ricercatori cresce delicatamente e timidamente, per il carattere mite di entrambi, giorno dopo giorno, fino ad esplodere nel finale del libro. A poco a poco diversi colleghi e rivali accademici di Roland e Maud iniziano a sospettare qualcosa dei loro strani spostamenti e iniziano ad indagare per proprio conto, mettendosi sulle loro tracce. Così, alla fine della storia, un nutrito gruppo di intellettuali, curiosi, ricercatori e cacciatori letterari si trova a condividere lo scioglimento del mistero e la conclusione dell’avventura.
La “possessione” del titolo è l’innamoramento che ha travolto le vite dei due poeti vittoriani, costringendoli a sentire la profonda “necessità” di amarsi nonostante le avversità; ma è anche la passione travolgente della ricerca e della conoscenza che si è impossessata di Roland e Maud e che li ha portati a scoprirsi e ad amarsi l’uno l’altro. Le due storie d’amore scorrono e si evolvono parallelamente, aldilà del tempo e dello spazio. In questo modo la Byatt riesce a dar voce a due mondi diversi, l’Inghilterra vittoriana e quella attuale, mostrandone le divergenze, ma soprattutto le similarità, attraverso l’universalità di certe tematiche (l’innamoramento, il desiderio di libertà, l’amore per la poesia e per la ricerca della Verità). La struttura del romanzo è quella di un libro giallo, dove gli investigatori portano avanti una meticolosa indagine, tra scoperte, suspence e colpi di scena, fino allo scioglimento finale dell’enigma. Ma in questo caso la materia di indagine sono la vita e l’amore di due poeti, gli indizi sono le loro opere e i migliori investigatori sono i  critici letterari: essi leggono, studiano, confrontano le opere-indizi, trovano corrispondenze, esaminano le biografie, fanno ipotesi e costruiscono teorie. Il romanzo è sapientemente costruito dal un punto di vista letterario, infatti più di metà dell’opera è costituita dagli "indizi": lettere, poesie, stralci di poemi, saggi. Per le poesie di Randolph e di Christabel, la Byatt ha dichiarato di essersi ispirata a poeti realmente vissuti quali Milton, Browning, Tennyson, Coleridge ed Emily Dickinson.
Abbiamo dunque di fronte una magnifica costruzione di thriller letterario in cui anche il lettore viene completamente posseduto da tutti gli elementi che si intrecciano nel romanzo: l’elemento passionale, la satira nei confronti del mondo accademico, l’amore per la poesia e il desiderio di arrivare allo scioglimento dell’intreccio, per poter finalmente conoscere e scoprire la Verità.
 Possessione è stato tradotto in 27 lingue ed è il romanzo più famoso della Byatt.


venerdì 20 maggio 2011

MY SON, MY SON WHAT HAVE YE DONE?, Werner Herzog

Un crimine inaspettato, in una via tranquilla, sembra un caso semplicissimo, ma il mistero non è chi sia stato, o come abbia fatto, ma perché…

Un’anziana donna è stata uccisa, la polizia accorre ad indagare e scopre immediatamente il colpevole: si tratta di Brad (un ottimo Micheal Shannon), figlio della vittima, che, compiuto il feroce delitto, si barrica in casa, minacciando di avere con sé alcuni ostaggi. Il detective Havenhurst (Willem Defoe), chiamato a gestire la situazione e ad indagare, inizia un viaggio a ritroso alla scoperta della passato di Brad tramite i racconti della fidanzata Ingrid (Chloë Sevigny) e dell'insegnante di recitazione (Lee Meyers).
Con Ingrid scopriamo un Brad succube di una madre tirannica e castratrice (Grace Zabriskie) dalla quale il ragazzo non è mai riuscito ad emanciparsi e con cui ha continuato a vivere in una claustrofobica casa rosa confetto. Grazie al suo insegnante di recitazione ripercorriamo invece la messa in scena dell’Elettra di Sofocle, storia del primo mitico matricidio, nella quale Brad doveva interpretare proprio Oreste, il figlio omicida.
Brad dunque è un attore, «ingannali e truffali» è il suo motto ma, attraverso la lente distorta della pazzia, nella sua mente vita e teatro finiscono per coincidere. Il teatro perde così la sua funzione rappresentativa e catartica, l’uccisione della madre prevaricatrice non avviene a livello simbolico e il ragazzo continua a vivere la sua esistenza asfittica riuscendo a scrivere la parola “fine” solo con un atto tragicamente concreto. L’atto atavico e definitivo che ha segnato ogni civiltà e che è stato stigmatizzato e purificato nell’arte, viene dunque a ripetersi.
I momenti di fermo immagine (accompagnati spesso dallo sguardo in camera degli attori) assicurano invece al pubblico la costante consapevolezza della finzione. L’intento del film non è quello di essere realistico, ma quello di dividere nettamente realtà e finzione, ponendosi come un’opera di teatro moderno, come una moderna “Orestea”, ispirata ad un fatto di cronaca realmente accaduto.
Un’altra sequenza importante è quella che ritrae l’evento che ha cambiato e modificato la vita di Brad: un’escursione in kayak in un fiume in Perù dove tutti i suoi compagni hanno perso la vita e che lui ha categoricamente rifiutato di affrontare, guidato dalla sua voce interiore. Da quel momento, salvato da morte certa, Brad inizia ad ascoltare e a seguire quella voce, che lo spingerà nel baratro della pazzia. Così il suo unico momento di contatto simbiotico col divino, avvenuto nella foresta peruviana, verrà vissuto dal fragile Brad come la via per la rivalsa individuale. Da quel momento, facendosi chiamare Farouk e riconoscendo Dio sui barattoli della farina d'avena, precipiterà nell’alienazione mentale tra manie di grandezza e deliri mistico-religiosi.
Le scene ambientate in Perù portano l’inconfondibile marchio di fabbrica di Herzog: le montagne e il fiume sono forze incontaminate e sovrane con cui l’uomo deve misurarsi in un’estrema sfida in cui il limite imposto dalla natura sembra davvero invalicabile; superarlo significa perdersi, e perire.
Nella pellicola si sente molto anche l’impronta di David Lynch, produttore del film. I fermo immagine, le lunghe carrellate panoramiche, l’apparizione del nano, i fenicotteri rosa, la casa surreale della madre (personaggio interpretato da un’attrice lynchiana di lunga data)… Tutto questo contribuisce a creare quell’atmosfera alienata ed alienante dei film di Lynch.
Due maestri del cinema danno alla luce un horror inquietante e straniante, privo di sangue, di mistero e di eventi soprannaturali, dove l’elemento mostruoso è rappresentato esclusivamente dalla terribile forza distruttiva della pazzia umana.

martedì 17 maggio 2011

LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI, Saverio Costanzo

La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo è l’adattamento cinematografico del fortunato omonimo romanzo di Paolo Giordano. Quello che Costanzo ha creato è in realtà un’opera completamente nuova: se la trama segue più o meno fedelmente il romanzo, è la cifra stilistica del film che ipnotizza lo spettatore e lo lega emotivamente ad una vicenda altrimenti glaciale e anaffettiva. Questo tipo di cinema non farà mai rimpiangere alcuna opera narrativa.
Con un montaggio parallelo, non sempre cronologicamente lineare, Costanzo porta sul grande schermo le vite di Alice e Mattia, bambini, adolescenti e poi adulti. Entrambi i protagonisti hanno vissuto un trauma infantile che non supereranno mai e che li porterà a vivere chiusi nella loro prigione di disperazione, sempre più isolati dal resto del mondo, sprofondati nel loro inferno di follia e autolesionismo. Vite distrutte, anime emarginate e alienate, i due ragazzi si incontrano nell’adolescenza e le loro vite iniziano a scorrere parallele: ogni vita procede lungo una linea retta, senza incontrare mai quella dell’altro, ma senza neanche mai allontanarsene di troppo. La loro solitudine è quella dei numeri primi gemelli, divisibili solo per uno e per sé stessi, ma al tempo stesso molto vicini tra loro. Il finale del film, al contrario di quello del libro, lascia aperte tutte le possibilità per il loro futuro: i silenzi, le reticenze e la misantropia di entrambi potranno forse essere vinti dalla loro similarità?
Saverio Costanzo, uno dei più validi esponenti del nuovo e talentuoso cinema italiano, in questo film ci dà la conferma della sua ecletticità e della sua capacità di trovarsi a suo agio nelle più diverse situazioni cinematografiche. In Private (2004) Costanzo aveva raccontato, in modo particolarmente convincente e lucido, il conflitto arabo-israeliano, utilizzando a livello stilistico la forma-documentaria: macchina da presa in spalla, luci naturali e immagini sgranate. Con In memoria di me (2006) l’autore si era dedicato ad un film simbolico e delicato che indagava i problemi della fede e della religione. Nella Solitudine dei numeri primi (2010) già dalle prime inquadrature capiamo che ci troviamo di fronte ad un thriller-psicologico, un horror forse, e la tensione che scena dopo scena cresce in noi non fa che confermarcelo. I campi lunghi che ritraggono, in un paesaggio innevato, l’enorme edificio dell’albergo e le brevi inquadrature degli interni non possono non ricordare l’Overlook hotel di Shining; al tempo stesso le musiche (la colonna sonora è di Mike Patton) suonano come un chiaro tributo al cinema di Dario Argento.

sabato 14 maggio 2011

IL CIGNO NERO, Danny Aronofsky

Dopo il pluripremiato The Wrestler, vincitore nel 2008 del Leone d’oro per il miglior film a Venezia, il regista Danny Aronofsky torna a confrontarsi (in modo diametralmente opposto), al tema della fisicità e dell’autolesionismo. Se nel 2008 abbiamo visto un pompatissimo Mickey Rourke sformato e martoriato dalla dura e squallida carriera del Wrestler, nel Cigno nero incontriamo Nina (Natalie Portman), ballerina estremamente perfezionista e tecnica, ossessionata dal suo fisico. Il rapporto di Nina con il cibo è disturbato: la magrezza è l’ideale a cui tendere e il mangiare è ridotto al minimo ed è accompagnato dai sensi di colpa. Le inquadrature che evidenziano la magrezza e la spigolosità del corpo, del viso (e quindi dell’animo) di Nina (i primi piani della Portman sono un capolavoro di espressività) sono spaventose quanto tutte le altre forme di autolesionismo, esibite e sottolineate dal regista (che sicuramente un po’ si compiace nel farci fremere sulla poltrona).
La giovane e promettente ballerina di New York vede finalmente realizzarsi i suoi sogni: una parte da protagonista nell’allestimento del Lago dei cigni di Čajkovskij. I suoi sogni si sovrappongono a quelli della madre Erica (Barbara Hershey), ex-ballerina che ha rinunciato alla carriera e che cerca una rivalsa personale nella figlia. Tra madre e figlia il rapporto è claustrofobico: Erica ha negato ogni barlume di autonomia e di libertà ad una figlia che ha il compito di riscattare i suoi sogni infranti; Nina dal canto suo, rinchiusa in questa trappola infantile di doveri e sensi di colpa, si sente soffocare.
Nina, che ha vissuto nel mondo irreale e patinato creato dalla madre, non si è mai confrontata con gli aspetti più dinamici e sensuali della vita. Il Dionisiaco le è estraneo. Il sesso è qualcosa di conturbante e proibito. Così, quando il regista Thomas Leroy (Vincent Cassel) la propone per la parte di protagonista, Nina,  perfetta per interpretare il cigno bianco, elegante e puro, si scontrerà con l’incapacità di rappresentare la parte sensuale e affascinante del cigno nero, interpretata magnificamente dall’altra ballerina candidata, Lilly (Mila Kunis), femminile e magnetica.
Nina vede in lei una rivale terribile, ma al tempo stesso ne è irresistibilmente attratta, proietta in Lilly tutte le proprie caratteristiche vitali ed oscure, continuando a vivere nel suo mondo piatto e parziale, bianco e rosa. Se siamo nel regno del dualismo, dove Male e Bene sono entità separate, questa atmosfera psicologica è incredibilmente resa sulla scena attraverso la netta separazione cromatica di bianco e nero, realizzata attraverso vestiti e costumi: il bianco e il rosa dominano la vita di Nina, mentre Lilly è sempre accompagnata dal nero. Fondamentale a livello visivo è anche la presenza degli specchi: lo specchio fa paura perché mostra chi siamo e, se quello che mostra non ci piace, la forza terrifica del nostro doppio diventa una realtà tangibile.
L’impossibilità di accettare le sue pulsioni, i suoi desideri e le sue parti d’ombra porta Nina nel baratro della frammentazione e della schizofrenia. La sua parte dionisaca, da forza primordiale dinamica e rigenerativa, si traforma così in una forza distruttiva e autolesionista, fino alla pulsione di morte.
Insieme a Nina, accompagnati dalle sublimi musiche di Čajkovskij, anche noi compiamo questo orrorifico viaggio nella psiche: Aronofsky non ci risparmia niente, ci smarrisce e ci conduce in un mondo mentalmente distorto e deformato.

venerdì 13 maggio 2011

OMERO, ILIADE, Alessandro Baricco

L’Iliade, il capolavoro omerico che fonda la cultura e la letteratura occidentale, viene riproposta da Alessandro Baricco in una veste molto più concisa e fruibile per il lettore moderno. Quest’operazione è il risultato diretto del progetto di Baricco di leggere in pubblico l’Iliade: progetto che, se affrontato sul testo integrale, avrebbe richiesto ore, giorni, settimane ed un pubblico estremamente motivato e paziente. Invece in questo modo Baricco riassume, “attualizza”, taglia (e ogni tanto “cuce”) il testo originale, creando un’opera nuova, efficacemente postmoderna.
Ai fedelissimi della traduzione di Rosa Calzecchi Onesti parrà che nel testo manchi la Poesia, ma uno degli intenti dell’autore era proprio questo; la sua versione è infatti basata sulla traduzione in prosa di Maria Grazia Ciani (Marsilio).
Le aggiunte al testo sono minime, e tutte segnalate dal corsivo: si tratta sia di interventi dell’autore che «riportano in superficie sfumature che l’Iliade non poteva pronunciare ad alta voce, ma nascondeva tra le righe», sia di passi di narrazioni posteriori della medesima storia. L’aggiunta più consistente è l’intervento finale di Demòdoco, che racconta della fine della guerra di Troia, dato che l’Iliade si conclude con la morte di Ettore e la restituzione del corpo al padre Priamo.
La narrazione è inoltre girata in soggettiva, sembrando in alcuni punti inverosimile (perché il personaggio dovrebbe sapere cose che accadono anche in sua assenza?), ma si tratta di un espediente senza dubbio efficace per tener vivi l’interesse e la capacità di immedesimazione di un pubblico moderno.
Se la forma è completamente stravolta, la storia è immutata, la sostanza è la medesima, le scene riportate sono le stesse che si susseguono nell’opera omerica, tranne una piccola importante eccezione: gli Dei. Gli Dei scompaiono, gli Dei non esistono nell’Iliade postmoderna, perché «sono forse le parti più estranee alla sensibilità moderna, e sovente spezzano la narrazione, disperdendo una velocità che, invece, avrebbe dell’eccezionale».
Dunque anche questa scelta si inscrive a pieno nel progetto di “velocizzazione” del testo, esigenza derivante dal progetto di lettura orale del testo, ma io credo soprattutto dalle necessità dell’epoca. Non dimentichiamo infatti che l’Iliade di Omero è nata, ed è stata tramandata per secoli, come testo orale. Dunque il problema non è l’oralità, ma le caratteristiche proprie del nostro mondo: velocità, facilità, superficialità (mi riferisco al quadro che lo stesso Baricco, consapevolissimo analista della nostra epoca, traccia ne I barbari).
E gli Dei, sono davvero così superflui? Secondo Baricco «l’Iliade ha una sua forte ossatura laica che sale in superficie appena si mettono tra parentesi gli dei. Dietro il gesto del dio il testo omerico cita quasi sempre un gesto umano che raddoppia il gesto divino e lo riporta, per così dire, in terra». Gli Dei dell’Iliade agiscono sulla realtà soprattutto attraverso le azioni degli uomini quindi, se da un lato la loro assenza riporta in primo piano l’uomo, le sue azione e le sue responsabilità; dall’altro toglierli dalla scena priva il testo del suo senso profondo, dello zeitgeist di quel mondo che racconta: «togliere gli dei dall’Iliade non è probabilmente un buon sistema per comprendere la civiltà omerica: ma mi sembra un ottimo sistema per recuperare quella storia riportandola nell’orbita delle narrazioni  a noi contemporanee».
Omero, Iliade si presenta come un libro utile per un veloce e piacevole ripasso della storia della guerra di Troia, ma rimane soprattutto un’opera rappresentativa dello spirito del nostro tempo, proprio e soprattutto nel confronto con il predecessore omerico.

AGONIA, Cesare Pavese

Girerò per le strade finché non sarò stanca morta
saprò vivere sola e fissare negli occhi
ogni volto che passa e restare la stessa.
Questo fresco che sale a cercarmi le vene
è un risveglio che mai nel mattino ho provato
così vero: soltanto, mi sento più forte
che il mio corpo, e un tremore più freddo
accompagna il mattino.

Son lontani i mattini che avevo vent'anni.
E domani, ventuno: domani uscirò per le strade,
ne ricordo ogni sasso e le striscie di cielo.
Da domani la gente riprende a vedermi
e sarò ritta in piedi e potrò soffermarmi
e specchiarmi in vetrine. I mattini di un tempo,
ero giovane e non lo sapevo, e nemmeno sapevo
di esser io che passavo-una donna, padrona
di se stessa. La magra bambina che fui
si è svegliata da un pianto durato per anni
ora è come quel pianto non fosse mai stato.

E desidero solo colori. I colori non piangono,
sono come un risveglio: domani i colori
torneranno. Ciascuna uscirà per la strada,
ogni corpo un colore-perfino i bambini.
Questo corpo vestito di rosso leggero
dopo tanto pallore riavrà la sua vita.
Sentirò intorno a me scivolare gli sguardi
e saprò d'esser io: gettando un'occhiata,
mi vedrò tra la gente. Ogni nuovo mattino,
uscirò per le strade cercando i colori.

martedì 10 maggio 2011

Iliade, canto VI°, 466-479

...E dicendo così, tese al figlio le braccia Ettore illustre:
ma indietro il bambino, sul petto della balia bella cintura
si piegò con un grido, atterrito dall’aspetto del padre,
spaventato dal bronzo e dal cimiero chiomato,
che vedeva ondeggiare terribile in cima all’elmo.
Sorrise il caro padre e la nobile madre,
e subito Ettore illustre si tolse l’elmo di testa,
e lo posò scintillante per terra;
e poi baciò il caro figlio, lo sollevò fra le braccia,
e disse, supplicando a Zeus e agli altri numi:
«Zeus, e voi numi tutti, fate che cresca questo
mio figlio, così come io sono, distinto fra i Teucri,
così gagliardo di forze, e regni su Ilio sovrano;
e un giorno dica qualcuno: “È molto più forte del padre”...

Einaudi, Traduzione di Rosa Calzecchi Onesti