venerdì 16 dicembre 2011

I GIORNI DELL'ABBANDONO, Elena Ferrante

Olga è una giovane scrittrice la cui vita sembra procedere nel migliore dei modi possibili: è felicemente sposata da quindici anni con Mario, l’uomo che ama e col quale ha avuto due bellissimi figli, Gianni e Ilaria. Una famiglia unita e felice che, giorno dopo giorno, cresce e si rafforza nell’equilibrio, nella normalità, nella routine del quieto vivere. A rallegrare le loro giornate c’è Otto, il cane lupo, che con le sue passeggiate e le sue abitudini contribuisce a creare un clima di felice quotidianità. Questo è il quadro famigliare che Olga, narratrice in prima persona, ci permette di scorgere tra le righe di un romanzo che comincia, invece, proprio dalla fine: «Un pomeriggio d’aprile, subito dopo pranzo, mio marito mi annunciò che voleva lasciarmi.» Olga non ci rende testimoni dei suoi giorni migliori, ma dei suoi “giorni dell’abbandono” (appunto), attraverso un quadro impietoso del periodo di depressione vissuto dopo la separazione dal marito Mario che, adducendo scuse futili come insoddisfazione, stanchezza e vuoto esistenziale, se ne va di casa senza lasciare a Olga né un recapito né alcun modo per rintracciarlo. Un uomo vile e meschino che scappa dalla famiglia, dalla moglie, dai figli, dal cane, per vivere una nuova vita, una seconda giovinezza (si è infatti innamorato di una ragazza molto più giovane di lui). Olga, rimasta da sola a badare alla casa, ai figli, al cane, attraversa tutte le fasi critiche dell’abbandono, addentrandosi in un viaggio interiore lungo e complesso che la porterà a scavare dentro se stessa, alla ricerca del suo Io, in un percorso di consapevolizzazione che metterà in gioco luci e ombre del suo matrimonio e della sua vita. Inizialmente Olga spera ancora che il marito torni da lei e cerca di riconquistarlo strategicamente con «la messinscena degli agi della vita domestica, toni comprensivi, una mitezza esibita e accompagnata persino da qualche battuta allegra». Al fallimento di questa strategia la mite Olga fa esplodere la rabbia da sempre repressa diventando aggressiva, oscena e volgare: sfoga il suo rancore verso gli amici e i passanti, aggredisce Mario, verbalmente e fisicamente, abborda il vicino Carrano solo per rivalsa personale… Cade in una spirale di odio che presto sconfina nella depressione, magistralmente rappresentata dall’interno tramite il sincero e torrenziale flusso di pensieri della protagonista: confusione mentale, stanchezza, percezione distorta delle cose, ossessione di dimenticare piccoli gesti banali (come spegnere il gas o chiudere la porta di casa), disinteresse verso il mondo circostante (figli compresi) e soprattutto quel desiderio di abbandonarsi, «sprofondare sorda e muta nelle mie stesse vene». A peggiorare la situazione, a Olga comincia a far visita un’apparizione, “la poverella”: fantasma, rievocato dall’infanzia napoletana, di una donna abbandonata dal marito, disperata e inconsolabile fino al disperato gesto finale, il suicidio. In una Torino deserta, soffocata dalla calura estiva, Olga affronta il momento più difficile del suo periodo di alienazione, una giornata terribile: «la giornata più dura di quella mia vicenda di abbandono.» Olga si trova in trappola nel suo stesso appartamento (grazie a una porta blindata che non ricorda più come aprire) senza alcuna possibilità di contattare il mondo esterno (il telefono non riesce proprio a farlo funzionare) alle prese con la figlioletta petulante, la malattia improvvisa del figlio e l’agonia del cane che sembra aver mangiato del veleno… In un crescendo di tensione seguiamo le vicende di Olga mentre lotta contro l’inettitudine e l’alienazione mentale che si stanno impadronendo sempre più prepotentemente di lei, fino a vederla sprofondare nel gorgo della disperazione più assoluta. Un incubo claustrofobico che il lettore, catturato e trascinato in caduta libera fino al fondo più nero dell’animo umano, non può fare a meno di leggere tutto d’un fiato. Da qui in poi la sofferenza sarà solo la fertile base della rinascita, di un lento guarire per cancellare la furia negativa del passato e ritrovare finalmente e «quietamente» (è questa l’ultima parola del libro) la calma e la razionalità.

giovedì 1 dicembre 2011

MADELEINE DORME, Sarah Shun-lien Bynum

Madeleine dorme, e quando dorme è così bella che la mamma e i fratellini stanno attenti a non svegliarla. Madeleine sogna, e quando sogna crea mondi fantastici popolati da creature surreali e grottesche. Una grassona a cui un giorno spuntano le ali, una donna il cui corpo si sta deformando in uno strumento musicale, una vedova con la perversione della pornografia, un uomo flatulento… e poi c’è lei, Madeleine, che fa la contorsionista e ha due palette al posto delle mani. Una galleria di personaggi irreali e fantasiosi, piccole marionette che recitano la loro parte nei sogni di Madeleine ma, al tempo stesso, creature profondamente umane nella loro tragicità e solitudine. Insieme a questa compagnia circense, tanto allegra quanto disperata, Madeleine scoprirà la vita, il sesso, l’amore, la gelosia, la violenza, il sangue, la perversione, in un processo di individuazione e formazione che si svolge interamente sul piano onirico. Il sogno e la realtà si fondono in un unico universo narrativo in cui la mente del lettore, all’inizio spaesata dal confondersi dei piani, si abbandona totalmente all’audace gioco di scrittura: sogno e realtà non stanno mai su piani separati e così gli echi di uno vanno ad influenzare l’altro in un gioco di rimandi e corrispondenze. La Bynum si muove in un territorio già esplorato dai maestri del subconscio ma lo fa in maniera assolutamente innovativa, trovando la sua forza nel gioco di delicati equilibri che le permettono di portare avanti una narrazione perennemente in bilico tra realtà, fantasia e sogno. Attraverso i sogni di Madeleine l’autrice ci racconta senza reticenze le ombre e le mostruosità dell’inconscio, ci racconta l’illecito, il peccato, la colpa, il sesso, il desiderio… Il tutto con una narrazione che procede frammentata in piccole istantanee – qualche frase, una pagina, due al massimo – curate ed autonome, ma che, poco a poco, si fondono in un unico affresco narrativo e romanzesco. Ricco di simboli e metamorfosi, delicato e voluttuoso insieme, Madeleine dorme è una favola moderna che naviga leggera sulle turbolente profondità dell’inconscio. Un libro leggero, soffice, colorato e festoso ma, al tempo stesso, un libro disperato e grottesco, torbidamente impregnato di sensualità.
Madeleine is sleeping è il libro d’esordio di Sarah Shun-lien Bynum grazie al quale è stata inclusa dal «New Yorker» tra i venti migliori autori americani under 40. Ora, a sette anni dalla pubblicazione negli Stati uniti (2004), Madeleine dorme è finalmente uscito anche in Italia, edito da Transeuropa edizioni.

martedì 15 novembre 2011

CONFESSIONE DI UN ASSASSINO, Joseph Roth


Joseph Roth, con una scrittura limpida e profonda, ci accompagna in una catabasi moderna, in una vertiginosa e consapevole discesa nell’inferno dell’anima. Un narratore anonimo – di cui ben poco sapremo anche col procedere della narrazione – riporta nero su bianco la strana e misteriosa vicenda di cui è stato testimone: una notte, in un ristorante russo a Parigi, Golubcik, ex-spia dell’Ochrana (la polizia segreta russa) decide di raccontare la storia della sua vita, coinvolgendo gli avventori in una narrazione orale di straordinaria potenza emotiva. Golubcik racconterà tutto di sé, senza reticenze né vergogne, anche gli aspetti più abietti e reconditi esternando l’ombra che da sempre lo perseguita, come un vecchio rimorso. Inizia così l’autoritratto di un uomo che ha vissuto e conosciuto l’abisso: l’infanzia e la giovinezza passate a sognare di essere riconosciuto dal padre naturale, il principe Krapotkin, il conseguente odio per il suo figlio legittimo, le ambizioni personali, l’arruolamento nei servizi segreti russi, i crimini e i tradimenti del mestiere, la passione per una donna frivola, l’accecante gelosia, l’omicidio. Golubcik ha vissuto un’esistenza dedita al Male fino al tormentato e tardivo pentimento finale che, pur concedendogli finalmente la liberazione dalla schiavitù dell’odio, non gli evita rimorsi e sensi di colpa. Il lungo viaggio di Golubcik verso la perdizione è costellato, nei suoi punti cruciali, dall’incontro con lo strano Lakatos, uomo di mondo elegante ed affabile che, con i suoi consigli luciferini e con il suo incedere zoppicante, è la chiara personificazione umana del Male («Notate, cari amici, con quale crudeltà Dio mi trattava, mettendo questo profumato Lakatos al primo crocevia che dovevo attraversare lungo la mia strada. Senza questo incontro la mia vita sarebbe stata completamente diversa. Ma Lakatos mi portò dritto all’inferno. Me lo profumò persino»). Un racconto metafisico sul potere del Male, sul suo sottile ed ammaliante fascino seduttivo, ma anche un appassionante racconto poliziesco e di spionaggio che si addentra nelle trame e nei crimini del sistema di polizia russo, al tempo stesso un racconto di erotismo e voluttà dove l’amore cede il posto alla passione e la gelosia all’ossessione.

sabato 12 novembre 2011

DOMANI NELLA BATTAGLIA PENSA A ME, Javier Marìas


«Nessuno pensa mai che potrebbe ritrovarsi con una morta tra le braccia e non rivedere mai più il viso di cui ricorda il nome». Così inizia il racconto di Víctor, narratore e protagonista del libro di Javier Marías. Tutto comincia con un invito a cena a casa di una donna semisconosciuta, mentre il marito è a Londra in viaggio di lavoro. Dopo la cena e il vino, il bambino viene messo a dormire e i due, Víctor e Marta, si dirigono finalmente in camera da letto iniziando a baciarsi e a spogliarsi. Il finale di quella serata sembra scontato, già scritto, ma improvvisamente Marta si sente male e, in pochi minuti, muore. Víctor deve affrontare la situazione, deve fare delle scelte. Prende tempo, riflette, pensa, pensa, pensa… Decide di non manifestarsi, di non avvisare nessuno, di lasciare che le cose vadano avanti da sole. In quella casa decide di fare solo poche modifiche, banali e di poco conto, ma che in realtà, scoprirà in seguito (e noi con lui), cambieranno la vita ad altre persone. Uscito da quella situazione senza lasciare tracce Víctor rimane mentalmente impigliato nella rete delle implicazioni che quella notte porta con sé, tormentato dalle conseguenze, da quella casa, da Marta, dal bambino, dalla loro famiglia. Come un fantasma che continua a perseguitarlo Víctor rimane vittima di un incantamento (usa la parola inglese haunted per descriverlo) e la morte di Marta diventa la sua ossessione. Tutto ciò che segue è il racconto, reale e mentale, del percorso di alienazione in cui lo ha condotto questa mania: i suoi tentativi di introdursi nella famiglia di Marta, le sue fantasie sulla sorella di lei, il suo comportamento insistente e sfacciato nel voler essere scoperto… A poco a poco Víctor si addentra sempre più a fondo nella vita di Marta, fino a conoscerne verità ed inganni, fino a capirne trucchi, menzogne e ipocrisie. Nessuno è davvero quello che sembra e l’immagine che mostra di sé agli altri è sempre falsata. Víctor capisce che gli esseri umani sono naturalmente così, che basano le loro relazioni sull’inganno reciproco: a una persona si nasconde un aspetto del nostro carattere, della nostra vita e ad altre persone se ne nasconde un altro… E dunque la verità non esiste né nella relazione né in noi, dato che noi stessi ci inganniamo nel nasconderci il vero. Alla fine, anche il confronto con Eduardo, il marito di Marta, mostrerà a Víctor quanto la realtà sia per tutti illusoria ed evanescente, ma al tempo stesso quanto la finzione, se scoperta, ci si mostri intollerabile: «Vivere nell’inganno o essere ingannato è facile […] e anzi è la nostra condizione naturale: nessuno va esente da questo e nessuno è stupido per questo, non dovremmo opporci più di tanto e non dovremmo amareggiarci. […] Tuttavia ci sembra intollerabile, quando alla fine sappiamo». Nel corso del libro conosceremo meglio Víctor, che lavora come ghost writer, o meglio come “negro” nel mondo delle sceneggiature televisive, che è divorziato da Celia (che assomiglia – oppure è – la puttana Victoria), entreremo nel suo precedente processo di alienazione dovuto alla sovrapposizione di queste due donne e ne seguiremo i passi mentre si addentra alla Corte reale spagnola in una rappresentazione grottesca e ironica di un mondo ormai appartenente al passato. Tutto questo con lo stile unico di Marías che ha costruito la sua opera con periodi lunghissimi per dare vita e spessore al flusso di coscienza del narratore. Una scrittura difficile in cui il racconto dei fatti cede quasi sempre il posto alla successione dei pensieri, trasformando una vicenda esteriore in un movimento dell’interiorità. Le frequenti ripetizioni, evidenziate anche grazie all’uso delle parentesi, legano i vari personaggi, trasportando le loro singole e differenti vite su un piano di universalità umana, rendendoli partecipi di un’unica grande storia. Un romanzo, ovvero un racconto di fantasia e di finzione, che riflette sulla finzione dell’esistenza e che, in questo modo, lega scrittura e vita. Così, in appendice all’edizione Einaudi, troviamo il discorso pronunciato da Marías a Caracas nel 1995 in occasione dell’assegnazione del Premio Rómulo Gallegos: una riflessione sul romanzo e sulla simulazione che porta inevitabilmente con sé.

sabato 5 novembre 2011

DOLCENERA, Fabrizio De André



Amìala ch'â l'arìa amìa cum'â l'é 
amiala cum'â l'aria ch'â l'è lê ch'â l'è lê 
amiala cum'â l'aria amìa amia cum'â l'è 
amiala ch'â l'arìa amia ch'â l'è lê ch'â l'è lê 

nera che porta via che porta via la via 
nera che non si vedeva da una vita intera così dolcenera nera 
nera che picchia forte che butta giù le porte 

nu l'è l'aegua ch'à fá baggiá 
imbaggiâ imbaggiâ 

nera di malasorte che ammazza e passa oltre 
nera come la sfortuna che si fa la tana dove non c'è luna luna 
nera di falde amare che passano le bare 

âtru da stramûâ 
â nu n'á â nu n'á 

ma la moglie di Anselmo non lo deve sapere 
ché è venuta per me 
è arrivata da un'ora 
e l'amore ha l'amore come solo argomento 
e il tumulto del cielo ha sbagliato momento 
acqua che non si aspetta altro che benedetta 
acqua che porta male sale dalle scale sale senza sale sale 
acqua che spacca il monte che affonda terra e ponte 

nu l'è l'aaegua de 'na rammâ 
'n calabà 'n calabà 

ma la moglie di Anselmo sta sognando del mare 
quando ingorga gli anfratti si ritira e risale 
e il lenzuolo si gonfia sul cavo dell'onda 
e la lotta si fa scivolosa e profonda 

amiala cum'â l'aria amìa cum'â l'è cum'â l'è 
amiala cum'â l'aria amia ch'â l'è lê ch'â l'è lê 

acqua di spilli fitti dal cielo e dai soffitti 
acqua per fotografie per cercare i complici da maledire 
acqua che stringe i fianchi tonnara di passanti 

âtru da camallâ 
â nu n'à â nu n'à 

oltre il muro dei vetri si risveglia la vita 
che si prende per mano 
a battaglia finita 
come fa questo amore che dall'ansia di perdersi 
ha avuto in un giorno la certezza di aversi 
acqua che ha fatto sera che adesso si ritira 
bassa sfila tra la gente come un innocente che non c'entra niente 
fredda come un dolore Dolcenera senza cuore 

atru de rebellâ 
â nu n'à â nu n'à 

e la moglie di Anselmo sente l'acqua che scende 
dai vestiti incollati da ogni gelo di pelle 
nel suo tram scollegato da ogni distanza 
nel bel mezzo del tempo che adesso le avanza 

così fu quell'amore dal mancato finale 
così splendido e vero da potervi ingannare 

Amìala ch'â l'arìa amìa cum'â l'é 
amiala cum'â l'aria ch'â l'è lê ch'â l'è lê 
amiala cum'â l'aria amìa amia cum'â l'è 
amiala ch'â l'arìa amia ch'â l'è lê ch'â l'è lê 

martedì 1 novembre 2011

LE PICCOLE VIRTÙ, Natalia Ginzburg


Undici racconti, a metà tra l’autobiografia e il saggio, che costituiscono, secondo Italo Calvino, «una lezione di letteratura». La Ginzburg raccoglie alcuni suoi scritti che spaziano lungo un arco temporale che va dal 1944 al 1962 e che racchiudono un’ampia gamma di stili e di tematiche differenti tra loro. Quello che rimane sempre invariato, filo conduttore dei piccoli universi narrativi qui raccolti, è l’io narrante, dietro il quale ogni volta vediamo chiaramente lei, Natalia. L’autrice non si nasconde mai dietro personaggi fittizi e ama parlare solo di quello che conosce meglio, di quello che ha sempre saputo e che l’accompagna da sempre… Il suo essere bambina, adolescente, donna e poi madre, la paura della povertà e del regime, la scoperta dell’amore, il dolore atroce causato dalla morte delle persone care, il calore delle piccole cose della vita quotidiana, l’amore per i figli… L’universo della Ginzburg è costellato di piccoli gesti importanti, innocenti e primitivi. La semplicità è il suo marchio e la sua forza.
Per questo un autore come Cesare Pavese, suo caro amico e collega all’Einaudi, ad un certo punto sbotterà nel Mestiere di vivere (5 febb. 1948): «La mia crescente antipatia per N. viene dal fatto ch’essa prende per granted, con una spontaneità anch’essa granted, troppe cose della natura e della vita.». La comprensione reciproca tra i due amici, che incarnano due opposti modi di rapportarsi alla vita e alla scrittura, non sarà mai ovviamente del tutto possibile. Natalia ci lascia in Ritratto d’un amico un commovente ritratto di un Pavese eterno adolescente che «si era creato, con gli anni, un sistema di pensieri e di principî così aggrovigliato e inesorabile, da vietargli l’attuazione della realtà più semplice». Oltre al bellissimo e delicato ritratto di Cesare Pavese, Le piccole virtù contiene racconti che rievocano il periodo bellico, l’esilio in Abruzzo, la povertà e poi la vita in Inghilterra, così come piccole riflessioni su questioni universali ed importanti, affrontate sempre con grande semplicità e concretezza, che vanno dalla questione dei rapporti umani, alla necessità del comunicare con gli altri, al mestiere di scrivere e all’educazione dei figli.
Da Elogio e compianto dell’Inghilterra ho scelto di riportare questo estratto che racconta, con una lucidità ancora attuale, la situazione italiana nel 1961:
«L’Italia è un paese pronto a piegarsi ai peggiori governi. È un paese dove tutto funzione male, come si sa. È un paese dove regna il disordine, il cinismo, l’incompetenza, la confusione. E tuttavia per le strade, si sente circolare l’intelligenza, come un vivido sangue. È un intelligenza che, evidentemente, non serve a nulla. Essa non è spesa a beneficio di nessuna istituzione che possa migliorare di un poco la condizione umana. Tuttavia scalda il cuore e lo consola, se pure si tratta d’un ingannevole, e forse insensato, conforto».

sabato 29 ottobre 2011

LA TRILOGIA DEGLI AUBREY, Rebecca West


Un’unica opera, composta da tre volumi, per un totale di 1236 pagine. Una saga famigliare che si sviluppa dall’autobiografia al romanzo di formazione, fino alla dimensione squisitamente letteraria. Rebecca West affida a Rose, narratrice in prima persona, il racconto della storia della sua famiglia e il vivace affresco di un’Inghilterra che cambia negli anni, partendo dalla fine dell’Ottocento fino al concludersi della Grande Guerra.
Nel primo libro, La famiglia Aubrey, Rose racconta la storia della sua infanzia, da sempre segnata dalle difficoltà economiche. Vivere in una famiglia di artisti non è cosa semplice per i piccoli Audrey. Cordelia, Mary, Rose e Richard Quinn si ritrovano a dover crescere con una madre ex musicista dolce ed eccentrica ed un padre dalla personalità fuori dal comune: scrittore, uomo di pensiero e di grande integrità morale che, a causa del vizio ossessivo del gioco e delle speculazioni, non riuscirà a mantenere la famiglia, finendo per abbandonarla. A far parte integrante della famiglia si uniscono ben presto la zia Constance e la cugina Rosamund.
Nel secondo volume, Proprio stanotte, i giovani Audrey, abbandonati dalla figura paterna di cui ormai accettano la scomparsa (e la morte), si trovano impegnati nella realizzazione di se stessi, in una corsa verso l’età adulta in cui il futuro sembra pieno di sogni e di speranze: Rosamund fa il praticantato per diventare infermiera, Mary e Rose lavorano duro per diventare delle pianiste professioniste, Richard Quinn decide di provare l’ammissione ad Oxford e Cordelia sembra trovare la sua strada nel matrimonio. Sulle prospettive luminose dei giovani si abbatte, però, il flagello della guerra che si porta via l’amato fratello Richard Quinn e poi, stremata dalla malattia e dal dolore, anche la madre Clare.
Nel capitolo finale della trilogia, Rosamund, Mary e Rose, affermate pianiste di successo, vivono dei loro concerti e trovano nella musica l’unica consolazione alla loro solitudine. Infatti le giovani donne non riescono ad allacciare legami di nessun tipo con le persone che frequentano né sperano di potersi mai innamorare, ma continuano a vivere nel passato, nel mondo dei ricordi, non riuscendo in nessun modo a colmare il vuoto causato dalla morte dei genitori e del fratello. Ad un certo punto una notizia inaspettata, il matrimonio della carissima cugina Rosamund, si trasformerà in una spiacevole sorpresa: il ricchissimo marito di Rosamund si rivela un personaggio privo di attrattive e di dubbia moralità. Nel frattempo anche Rose scopre la gioia dell’amore sposando Oliver, un compositore, mentre Mary si rinchiude sempre più nella sua solitudine. Qui termina incompiuto il terzo volume, che, secondo gli appunti della West, avrebbe dovuto contenere anche il ritiro dalla carriera concertistica di Mary.
Rebecca West aveva annunciato anche un quarto volume che avrebbe dovuto portare a conclusione le vicende lasciate sospese e i nodi irrisolti del romanzo. Di questo progetto narrativo ci ha lasciati una breve ma interessante sinossi che si trova nella postfazione al romanzo.
Un cofanetto per lettori audaci e coraggiosi che amano perdersi nel dettaglio delle descrizioni e nel racconto dell’interiorità. Un libro in cui succede poco, in cui tutto è sospeso e le vicende che accadono sono riassumibili in poche righe; un libro in cui abbondano invece le dissertazioni musicali e i momenti di scrupolosa indagine sui sentimenti e sulle dinamiche che regolano i rapporti interpersonali, tra questi nello specifico quelli famigliari. Un libro per lettori che non si scoraggiano davanti a pagine e pagine di vita quotidiana, tinta di magia e di realtà, dove alle domande non viene data risposta e poco conta quello che realmente accade, bensì il riflesso che gli eventi assumono nel vissuto interiore della protagonista. I momenti più profondi e toccanti risultano essere le riflessioni di Rose sulla famiglia e sui propri genitori, soprattutto quando seguono momenti intensi come l’abbandono del padre, l’accettazione della sua scomparsa e la morte della madre, momenti che diventano dei piccoli ed emozionanti capolavori di espressività narrativa.

giovedì 29 settembre 2011

CARNAGE, Roman Polanski


L’ultimo film di Roman Polanski, Carnage (letteralmente "massacro") è basato su Le Dieu du carnage, una pièce teatrale della drammaturga contemporanea francese Yasmine Reza (in Italia pubblicata da Adelphi: Il dio del massacro, 2007). Ci troviamo dunque davanti ad un’opera riadattata per il cinema che però non dimentica le sue origini teatrali e, ambientata totalmente in poche stanze, concentra tutta la sua forza dirompente sulla sceneggiatura e sulla recitazione degli attori. Ambientato a Brooklyn, nell’appartamento dei coniugi Longstreet, il film si apre con la discussione tra due coppie di genitori che vorrebbero risolvere civilmente un brutto incidente avvenuto tra i loro figli undicenni: una provocazione, una bastonata, labbra gonfie e due incisivi saltati. I Longstreet, genitori della parte lesa, stanno cercando di avviare un patteggiamento insieme ai Cowan, genitori dell’aggressore, armati delle migliori intenzioni, cercando di evitare critiche e rancori. Tutto sembra andare per il meglio, le due coppie dialogano e si confrontano in maniera benevola e costruttiva nonostante cominci a serpeggiare un certo malumore, dovuto all’insofferenza e a qualche battutina. Diverse volte i Cowan cercano di andarsene, ma ogni volta c’è qualcosa che li spinge a tornare indietro, un caffè o un pezzo di torta, finché qualcosa, a un certo punto, comincia davvero ad andare storto… Un criceto abbandonato e un’irrefrenabile nausea sono i pretesti attorno a cui inizierà a costruirsi la spirale di odio che invaderà le anime dei quattro protagonisti. Penelope Longstreet (Jodie Foster) scrittrice impegnata, appassionata d’arte e attivista per i diritti umani del Darfur è la buonista del gruppo, convinta di essere migliore degli altri si sente in diritto di fare a tutti la predica sull’educazione dei figli. Michael Longstreet (John C. Reilly), suo marito, venditore all’ingrosso di pentole e sciacquoni (e colpevole dell’abbandono del criceto della figlia), inizialmente amichevole e conciliante, si rivelerà una persona vuota, fredda e insensibile, soprattutto nei confronti della moglie. C’è poi Nancy Cowan (Kate Winslet), operatore finanziario, riservata e signorile, che rilascia il contenuto del suo stomaco sui libri d’arte della signora Penelope e che alla fine, sbronza, manifesterà tutto il suo menefreghismo nei confronti della situazione. Infine c’è Alan Cowan (Christoph Waltz), avvocato di successo, calcolatore e privo di scrupoli, unico personaggio che dall’inizio alla fine si mostra più o meno uguale a se stesso: estremamente maleducato nelle sue telefonate, cinico e poco disponibile alla finzione e al buonismo, dichiarerà apertamente: «Penelope, io credo nel dio del massacro. È il solo che ci governa, in modo assoluto, fin dalla notte dei tempi». La guerra è aperta, la carneficina ha inizio in un alternarsi continuo di ostilità ed alleanze. Per 80 minuti dimenticate il politicamente corretto, i buonismi e le ipocrisie: tutte le convenzioni della convivenza civile crollano a poco a poco, lasciando il posto ad una realtà crudele e spietata. Polanski smaschera e distrugge il sogno americano e l’idea di società civile occidentale mettendo in scena la realtà della barbarie umana. Eppure nella scena finale il regista lascia intravedere una speranza per il futuro: il criceto, inconsapevole protagonista di questa vicenda (e testimone in prima persona della crudeltà umana) è ancora vivo e i due ragazzini giocano insieme: hanno già fatto la pace e scoperto il perdono

venerdì 16 settembre 2011

TERRAFERMA, Emanuele Crialese


In una piccola isola a sud della Sicilia una piccola comunità di pescatori cerca di tenere in vita le antiche leggi del mare, nonostante i tempi siano cambiati…
Filippo (Filippo Pucillo), giovane orfano di padre, vive con la madre Giulietta (Donatella Finocchiaro) ed il nonno Ernesto (Mimmo Cuticchio) in una sperduta isola della Sicilia. Durante la pesca Filippo ed Ernesto si imbattono in un gommone in avaria pieno di immigrati. La capitaneria di porto gli intima di non accoglierli assolutamente a bordo, ma i pescatori seguono la vecchia legge del mare e ne imbarcano alcuni che rischiano di affogare. Tra questi una donna incinta, Sara (Timnit T.), e suo figlio. Rientrati in porto alcuni immigrati fuggono, ma Sara deve partorire, così viene accolta e aiutata da Giulietta. A questo punto comincia un braccio di ferro tra i pescatori e le forze di polizia, tra le vecchie tradizioni che in mare impongono l’aiuto reciproco, e le leggi di un governo poco sensibile alle sofferenze degli immigrati. Giulietta ha paura di essere scoperta, vuole che Sara se ne vada, ma al tempo stesso a poco a poco tra le due donne si instaura un profondo rapporto di empatia emotiva: attraverso l’esperienza della maternità ed il racconto della sofferenza le due donne si sentiranno sorelle, partecipi della sorte e del destino l’una dell’altra. Intanto Filippo, oscillando tra ingenuità e crudeltà, compierà un percorso di crescita e consapevolezza, aprendo gli occhi sul mondo e imbarcandosi per il viaggio alla ricerca della terraferma, terra promessa simbolo di speranza e libertà.
Il mare della Sicilia torna come vero protagonista di questa narrazione continuando il discorso di ricerca estetica cominciato da Crialese con Respiro (2001). Le affascinanti inquadrature sottomarine permettono allo spettatore di dimenticare il dato di realtà sprofondando in una dimensione onirica e fiabesca. Quando sott’acqua vengono inquadrati i corpi delle persone che nuotano si crea una scena corale di forte potenza espressiva che rende le persone tutte uguali, irriconoscibili e indistinguibili, legate in un patto di armonia e di fratellanza che la realtà terreste invece nega. L’isola di Crialese diventa metafora di tutto il mondo e di tutti i tempi, portatrice di un messaggio di solidarietà che supera i confini spazio-temporali della storia toccando la dimensione dell’universale umano.
La donna che impersona Sara (Timnit T.) non è un’attrice, ma una vera migrante. La giovane africana è stata protagonista di una delle storie più atroci che la recente cronaca sull’immigrazione ricordi. Nel 2009, dopo ventuno giorni alla deriva, senza cibo né acqua, un barcone approda sulle coste di Lampedusa: a bordo ci sono 79 persone di cui soltanto 5 sono vive. Tinmit T. racconta che almeno dieci volte hanno sperato di essere salvati, vedendo delle imbarcazioni passare nelle loro vicinanze ma che ogni volta, puntualmente, ogni imbarcazione li ha ignorati, condannandoli a morte certa.

venerdì 2 settembre 2011

AVVENTURE DELLA RAGAZZA CATTIVA, Mario Vargas Llosa


Le labbra carnose, gli occhi maliziosi scuri come il miele, il corpo sottile e sinuoso con forme morbide ed eleganti… Questa è la niña mala, “ragazza cattiva” che incanta e seduce Ricardo per una vita intera. Le maniere civettuole, l’ironia di chi sa e vuole piacere, unite all’ambizione e al desiderio di ricchezza fanno di questa donna una bomba ad orologeria: egoista e materialista, è concentrata solo su se stessa e sul proprio successo, comportamento tipico di chi nell’infanzia ha conosciuto la precarietà dell’esistenza che la miseria comporta. Per raggiungere la sicurezza economica la niña mala sarà pronta a tutto e vivrà una vita di avventure impensabili: Lima, Cuba, Parigi, Londra, Tokyo e di nuovo Parigi, il mondo stesso sembra starle piccolo. Impara le lingue, cambia personalità, si adatta ad ogni situazione grazie alla sua capacità di trasformista e, da buona arrampicatrice sociale, si sposa diverse volte. In mezzo a questa vita turbolenta e avventurosa la niña mala porta avanti il difficile rapporto con un niño bueno, Ricardo, che ne è irrimediabilmente innamorato, nonostante lei lo faccia terribilmente soffrire. Ricardo lavora come traduttore ed interprete all’Unesco di Parigi e il suo lavoro gli offre la possibilità di viaggiare, così, ogni volta che le coincidenze della vita gli permetteranno di sapere dove si trova la niña mala, lui partirà a cercarla, ardente d’amore e di desiderio. Solamente quando, esasperato dalla sua crudeltà, Ricardo avrà realmente deciso di dimenticarla, la ragazza tornerà a bussare alla sua porta, fisicamente e psicologicamente devastata dalle sue ultime esperienze di vita. Una storia d’amore intensa e dolorosa, una storia di sesso, passione, ossessione e follia, una storia molto sudamericana dove l’amore nasce e si consuma in momenti di caldo erotismo e in frasi da telenovela (le famose huachaferìas che piacciono tanto alla niña mala). A fare da sfondo, il ritratto di quel periodo pieno di speranze, sogni e delusioni che è stato quello dagli anni Sessanta agli anni Ottanta. Parigi, i suoi bistrot e la sua vita culturale; Londra, i Beatles, i figli dei fiori, l’AIDS; e poi l’allucinata e ricca Tokyo, con le sue perversioni. Infine il sempre presente Sudamerica, la povertà e l’indigenza e, nello specifico, il Perù, con le sue vicende politiche eternamente segnate dai colpi di stato.
Ricardo, l’io narrante di questa storia, passati i cinquant’anni accompagnerà la niña mala nell’avventura più grande che abbia mai affrontato, quella verso la morte e, dopo che la donna della sua vita sarà scomparsa, troverà la forza per sublimare quel passato di gioie e umiliazioni in un libro. La scrittura nasce dall’assenza e nell’assenza trova la sua ragion d’essere così, dove finisce la vita, inizia l’arte.

mercoledì 24 agosto 2011

ESPIAZIONE, Ian McEwan


Romanzo del britannico Ian McEwan uscito nel 2007 e diviso in quattro parti. La prima parte è ambientata a villa Tallis, nella campagna inglese, nell’estate del 1935. In una torrida giornata d’estate Briony e la sua famiglia aspettano l’arrivo del fratello maggiore, Leon, insieme all’amico Paul Marshall, industriale della cioccolata. Briony Tallis ha tredici anni, una fervida fantasia ed una grande ambizione: diventare una scrittrice. La ragazzina ha scritto una commedia per l’amato fratello e sta affrontando le fatiche dell’allestimento, coinvolgendo nella recitazione i cugini del Nord: i gemelli Pierrot e Jackson e l’odiata cugina Lola. Le prove della commedia vanno male così Briony decide che da quel giorno avrebbe rinunciato al teatro per diventare una romanziera. Proprio quel giorno le darà l’ispirazione per la sua prima e più importante storia, perché  quel giorno cambierà per sempre la vita sua e degli altri. C’è qualcosa di strano che dalla mattina tormenta Briony: il turbolento rapporto che lega la sorella maggiore Cecilia a Robbie, il figlio della domestica. La bambina continua a chiedersi cosa stia succedendo e, equivoco dopo equivoco, formula la sua teoria: Cecilia è in pericolo, non ci sono dubbi, e lei deve difenderla da Robbie. Briony ha visto la sorella spogliarsi davanti a lui, ha letto un messaggio di Robbie con chiari riferimenti sessuali e infine li ha visti in biblioteca, nel buio: lui era addosso a lei e la teneva stretta a sé, prigioniera. In realtà tra i due giovani sta nascendo un amore potente e passionale che li condurrà ad azioni avventate ed impulsive che, agli occhi della piccola Briony, assumeranno un significato perturbante e pericoloso. Una bravata dei piccoli gemelli costringe tutti gli abitanti e gli invitati di villa Tallis ad andare a cercarli di notte nel parco. Briony casualmente si imbatte in una figura maschile in fuga mentre Lola, in lacrime, la chiama e le racconta di aver subito violenza. La mente di Briony, suggestionata dagli eventi della giornata, non fatica a riconoscere nella sagoma intravista la figura di Robbie e così denuncia un innocente per quel disgustoso crimine. Robbie viene immediatamente arrestato e Cecilia, appena scoperto l’amore, deve perderlo per le fantasiose farneticazioni di una ragazzina presuntuosa. La seconda parte del romanzo è ambientata nel 1940, in Francia del Nord, durante l’avanzata dei tedeschi ed il ripiegamento delle truppe inglesi e francesi. Robbie è uno dei soldati sbandati che, dopo l’ordine di ritirata, sta scappando, ferito, verso la costa per essere rimpatriato. Insieme a due caporali Robbie affronta gli orrori e i pericoli della guerra guidato solo dal ricordo  di Cecilia e dalle sue parole: Ti aspetterò. Torna da me. La terza parte del romanzo vede Briony lavorare duramente in ospedale a Londra, come infermiera tirocinante, durante il periodo della guerra. I sensi di colpa continuano a perseguitarla per quello che ha fatto, anche perché la guerra ha aggravato la situazione. Briony teme che quello che non ha potuto distruggere lei con la sua stupidità, lo distruggerà, questa volta in modo irreversibile, la guerra. La notizia del matrimonio tra la cugina Lola e Paul Marshall è l’evento che la fa precipitare nuovamente nel passato. Così un giorno, con tutto il coraggio possibile, decide di rintracciare Cecilia, anche lei infermiera a Londra, e lì trova Robbie: i due amanti sono finalmente insieme e, nonostante le avversità sopportate, possono vivere il loro amore in libertà. Adesso Briony ritirerà l’accusa, ritratterà la testimonianza e forse la famiglia potrà tornare finalmente ad unirsi. Briony non si aspetta certo il perdono, ma sapere che l’amore ha vinto la rasserena e la libera dalla colpa. L’ultima parte del libro è ambientata a Londra, nel 1999. Vediamo una Briony settantasettenne, scrittrice affermata ad un passo dalla perdita della lucidità e delle facoltà mentali. Briony festeggia il suo compleanno con tutti i famigliari nella sua vecchia villa di famiglia, ora trasformata in un albergo. Briony ha finito questo romanzo, la cui prima stesura risale al 1940 e, anche se potrà essere stampato solo dopo la morte di Lola e Paul Marshall, è finalmente in pace con se stessa perché ha compiuto la sua espiazione. Ha reso finalmente giustizia alla vicenda, descrivendo i fatti con assoluta oggettività, ma soprattutto ha dato una seconda possibilità di vita insieme agli amanti, a Robbie e Cecilia, che in realtà non sono mai sopravvissuti alla guerra.
McEwan mette insieme un romanzo complesso e delicato dove la limpidezza della struttura geometrica e la perfezione dei meccanismi narrativi si innestano su un piano di profonda introspezione psicologica. I personaggi sono caratterizzati magnificamente e ne vengono esplorati punti di vista, pensieri, paure e ragionamenti. La protagonista Briony è estremamente interessante nella sua crudele presunzione fanciullesca mista a tenera ingenuità infantile. I temi affrontati sono vasti e universali: la letteratura, i legami famigliari, l’amore, la guerra, la colpa. McEwan mette in piedi una storia che appassiona il lettore, facendolo sperare e soffrire, facedogli vivere il peso di quell’espiazione che la protagonista così faticosamente conquista.  Il potere della letteratura e della parola è proprio quello di dar vita alle cose e così la vecchia Briony ci commuove, dando vita e speranza al sogno d’amore che in vita aveva così maldestramente distrutto.
Dal romanzo è stato tratto il film omonimo di Joe Wright (2007) con Keira Knightley nel ruolo di Cecilia e James McAvoy nel ruolo di Robbie.

lunedì 15 agosto 2011

TRILOGIA DI NEW YORK (Città di vetro, Fantasmi, La stanza chiusa), Paul Auster


Tre detectives-stories appassionanti e originali per descrivere una metropoli fredda, squallida e frenetica, dove i rapporti umani sono l’eccezione e tutto il resto è semplicemente Caos. Nessuno è davvero importante, niente ha un significato chiaro e i ruoli sono sempre intercambiabili: in questo modo la vita può scorrere nel nulla senza che nessuno se ne accorga. Questa è la New York di Paul Auster. Così in Città di vetro lo scrittore di romanzi gialli Daniel Quinn risponde ad una telefonata misteriosa nel bel mezzo della notte e assume l’identità di un famoso investigatore privato, cambiando vita e trasformandosi proprio nel personaggio dei suoi romanzi. Quinn precipiterà in una spirale di eventi che lo porteranno, tra sospetti e pedinamenti, a perdersi completamente tra le vie di New York fino a smarrire la sua vita precedente, il suo passato e il suo futuro, in un delirio di insensatezza. E così in Fantasmi i personaggi, enigmaticamente chiamati con i nomi dei colori, sono davvero chi dicono di essere? Oppure è tutta finzione? Blue è un detective che, stipendiato da White, sta perdendo la sua vita a spiare Black, un uomo comune che ogni giorno conduce la solita vita abitudinaria. Ma davvero tutto è come sembra? La voglia di essere guardati è pari solo a quella di guardare e, in una crescendo di voyeurismo, scopriamo che i ruoli sono intercambiabili e che nessuno deve mai smettere di guardarsi le spalle. Infine il romanzo più emozionante, intimo e perturbante, La stanza chiusa, in cui un uomo, un giornalista, riceve la notizia che il suo caro amico d’infanzia è misteriosamente scomparso, lasciando a lui l’onere e l’onore di pubblicare le sue opere letterarie. L’ammirazione per l’amico di un tempo diventerà immedesimazione e poi appropriazione totale della sua vita, fino allo squilibrio e all’ossessione.
Il filo che lega questi tre racconti è la solitudine dei personaggi, uomini soli intrappolati in una città allucinata e straniante, dove è più facile perdersi che ritrovarsi. Questa città offre a questi uomini una possibilità, che tutti colgono e collaudano con vari esiti: mescolarsi nella folla, perdere la propria identità per assumere sempre nuove maschere e scambiare la propria vita con quella degli altri, fino a dimenticare se stessi. Tre storie poliziesche che, partendo da una situazione classica e collaudata, finiscono per precipitarci nell’ignoto, in una zona d’ombra dove non ci sono regole e, in un gioco di specchi e di riflessi, ci disorientano e ci smarriscono, come succede ai protagonisti di queste vicende.

mercoledì 3 agosto 2011

LA FAMIGLIA WINSHAW, Jonathan Coe


Micheal Owen è un giovane scrittore perseguitato dai fantasmi dell'infanzia e terribilmente spaesato nella frenesia del mondo moderno. Un giorno, dopo alcuni modesti successi letterari, riceve una proposta di lavoro indeclinabile: una strana signora rinchiusa in manicomio da tutta una vita gli offre un lauto stipendio mensile purché egli scriva la biografia della sua famiglia, una delle più ricche e potenti dell’Inghilterra degli anni 80: gli Winshaw. Micheal deve confrontarsi con la rapacità, l’avidità e la follia che sembrano essere impresse nel DNA di questa famiglia da due intere generazioni: se i padri complottarono col nemico nazista, tradendo insieme patria e famiglia, i figli non hanno tardato a vendersi al miglior offerente, schiavi del denaro e della celebrità. Gli odierni Winshaw rappresentano il lato più oscuro dell’Inghilterra di Margaret Thatcher, incarnando il trionfo dei valori sbagliati: opportunismo, cinismo, egoismo, disinteresse verso il prossimo, avidità. Un ritratto a tinte nitide non ci sono sfumature sulla corruzione e sulla crudeltà di un potere che “logora chi non ce l’ha”. Traffici d’armi, privatizzazioni selvagge e frodi fiscali fanno da sfondo alle indagini di Micheal e si confondono sempre più con la sua vita privata. L’amore, la famiglia, le amicizie, gli incontri di Micheal, tutto è in qualche modo collegato a questa terribile famiglia, ma allora cosa c’entra l’ingenuo scrittore in tutto questo? È davvero soltanto il semplice biografo di famiglia? Grazie a quest’indagine il protagonista potrà scoprire le sue origini, ritrovando tutti i pezzi mancanti che il puzzle incompleto della sua infanzia gli aveva lasciato, e finirà per scoprire tragicamente che il confine tra sogno e realtà non è netto e definito, ma che i due mondi finiscono per convergere. Come lui il lettore si perde tra arte, sogno e realtà, in un vortice di situazioni e personaggi i cui destini si incrociano tra loro, in una sublime struttura narrativa non lineare che Jonathan Coe costruisce con la sua abile maestria di scrittore post-moderno.
Ironia e humor nero si mescolano alla drammaticità delle vicende private di Micheal e al triste ritratto di una società crudele. Le guerre e un minuzioso studio della società inglese fanno da sfondo al romanzo, che è saga famigliare e racconto d’investigazione insieme, e il cui finale, inaspettatamente, cambia registro per regalarci momenti di suspence da romanzo giallo che si scioglieranno in un rito del sangue folle, purificatore e catartico.

mercoledì 22 giugno 2011

LE PAROLE, Eugenio Montale

Le parole
se si ridestano
rifiutano la sede
più propizia, la carta
di Fabriano, l'inchiostro
di china, la cartella
di cuoio o di velluto
che le tenga in segreto;
le parole
quando si svegliano
si adagiano sul retro
delle fatture, sui margini
dei bollettini del lotto,
sulle partecipazioni
matrimoniali o di lutto;
le parole
non chiedono di meglio
che l'imbroglio dei tasti
nell'Olivetti portatile,
che il buio dei taschini
del panciotto, che il fondo
del cestino, ridottevi
in pallottole;
le parole
non sono affatto felici
di essere buttate fuori
come zambracche e accolte
con furore di plausi
e disonore;
le parole
preferiscono il sonno
nella bottiglia al ludibrio
di essere lette, vendute,
imbalsamate, ibernate;
le parole
sono di tutti e di nessuno
si celano nei dizionari
perché c’è sempre il marrano
che dissotterra i tartufi
più puzzolenti e più rari;
le parole
dopo un’eterna resa
rinunziano alla speranza
di essere pronunziate
una volta per tutte
e poi morire
con chi le ha possedute.


sabato 18 giugno 2011

LO STRANO CASO DEL CANE UCCISO A MEZZANOTTE, Mark Haddon

Wellington, il cane della signora Shears, è stato ucciso con un forcone a mezzanotte e sette minuti. Christopher, un ragazzino di quindici anni,  si trova sul luogo del delitto e viene accusato di essere il colpevole. Inizia un gran trambusto e qualcuno chiama la polizia. Christopher, preso per un braccio, colpisce un poliziotto e viene portato in questura dove riceve una diffida, ma viene rilasciato grazie all’intercessione del padre. Una volta uscito Christopher promette a se stesso di trovare l’assassino di Wellington. Inizia così l’indagine; e inizia così questo libro, che è il diario di Christopher, il libro delle sue investigazioni e riflessioni. Nel corso delle indagini Christopher scoprirà chi ha ucciso Wellington, ma allo stesso tempo farà delle scoperte sconvolgenti e destabilizzanti sulla sua famiglia. Quello che sembrava un romanzo giallo si trasforma così in un romanzo di formazione. Infatti, in conseguenza a tutte queste scoperte, Christopher si metterà in viaggio per l’esperienza più incredibile e formativa che abbia mai fatto: un viaggio da solo da Swindon a Londra. Christopher non è un ragazzo come tutti gli altri e, per lui, un piccolo viaggio nella grande metropoli rappresenta davvero un’incredibile odissea. Vediamo perché. Christopher John Francis Boone ha 15 anni, 3 mesi e 3 giorni e conosce a memoria i nomi di tutte le nazioni del mondo e delle loro capitali nonché ogni numero primo fino a 7507. A poco a poco scopriamo altre cose di lui: ama il rosso e odia il giallo e il marrone, non mangia se nel suo piatto i cibi sono entrati in contatto tra loro, odia i romanzi e non capisce le metafore, ama l’Apollo, la scienza, le cartine stradali e la matematica, non capisce le espressioni facciali e detesta essere toccato. Tutte queste sue particolarità sono in realtà le conseguenze della sindrome di Asperger, una forma di autismo da cui il ragazzo è affetto. Christopher ha un’intelligenza superiore alla media, è un genio in matematica e ha una memoria di ferro, ma non sa rapportarsi con il mondo circostante: ha paura degli estranei, diventa violento se qualcuno lo tocca, odia la folla e spesso non capisce le persone. Infatti le persone non sono logiche, le persone sono imprevedibili, usano il linguaggio del corpo e parlano per modi di dire. Per questo un piccolo viaggio sarà per Christopher un’avventura unica, la più grande esperienza di vita mai fatta, in cui dovrà imparare a controllare repulsioni, angosce e fobie.
Mark Haddon riesce genialmente a riportare sulla pagina i processi mentali di un ragazzo autistico e a farci entrare in prima persona nella sua struttura mentale. Questo avviene, da un lato, attraverso la rappresentazione grafica degli schemi e delle immagini che il cervello di Christopher memorizza ed utilizza e, dall’altro, attraverso l’esplicitazione dei procedimenti logici-deduttivi con cui procede il suo ragionamento e da cui derivano le sue scelte ed azioni. Leggendo questo romanzo il lettore entra nella realtà mentale parallela di Christopher, fa un’esperienza empatica di identificazione mentale in un individuo autistico. L’effetto è sicuramente molto verosimile. Se in alcuni momenti l’identificazione è molto divertente, in altri momenti il lettore proverà straniamento e difficoltà ad accettare questa visione del mondo. Sicuramente, in ogni caso, si tratta di un’esperienza altamente stimolante perché, guardando il mondo attraverso gli occhi di Christopher, potremmo forse accorgerci di tutte quelle cose che diamo per scontate nel processo di relazione e che invece non lo sono affatto. Infine, un romanzo commovente. La rigida logica di Christopher sembrerebbe bloccare l’emotività del romanzo ma, in realtà, la sensibilità del lettore non può far altro che oltrepassare quel muro di anaffettività per arrivare a sentire profondamente il valore di quella capacità di comprensione globale ed emotiva delle cose che, nonostante in individui come Christopher manchi, contraddistingue l’umanità.

martedì 14 giugno 2011

QUEL CHE RESTA DEL GIORNO, Kazuo Ishiguro


Mr Stevens, maggiordomo di un’importante casata inglese, approfitta di un viaggio in macchina nella campagna circostante per ripensare la propria vita, fino ad allora dedicata interamente al lavoro. Attualmente Stevens lavora al servizio di un signore americano, Mr Farraday, che ha comprato la meravigliosa residenza di Darlington Hall e, compreso con essa, ha acquisito anche il suo inglesissimo maggiordomo. In concomitanza di una sua lunga assenza da casa il padrone accorda a Stevens il permesso di fare un viaggio con la sua Ford, offrendosi di pagare lui la benzina, a condizione che il maggiordomo si prenda una pausa di riposo e di svago. Stevens decide di andare a trovare Miss Kenton, l’antica governante, sposatasi e allontanatasi da Darlington Hall ormai da una ventina d’anni. Questo viaggio sarà finalmente la sua occasione per riflettere e ripensare al suo passato. Stevens ha passato gli anni migliori della sua vita (lavorativa e non) nella famosa residenza di Darlington Hall al servizio del gentiluomo inglese Lord Darlington. Quelli sono stati per Stevens momenti di grande splendore, infatti, all’apice della carriera, si è trovato a dar sfoggio della sua professionalità in una residenza che ospitava spesso importanti personaggi politici provenienti da tutt’Europa. Per Stevens a quei tempi non esisteva null’altro che il dover svolgere il proprio mestiere con “dignità”; su questo concetto, nel corso del viaggio, il maggiordomo avrà occasione di riflettere e così noi vedremo questa “dignità” concretizzarsi in una serie di principi, tanto onorabili quanto poco umani. Primo fra tutti, la totale ed incondizionata fiducia verso il suo datore di lavoro, cosa che porterà Stevens a non prendere posizione davanti ad alcuni ordini moralmente discutibili di Lord Darlington, giustificando in tutti i modi le strane posizioni filo-naziste che il suo padrone stava assumendo. Ma questa non sarà l’unica cosa su cui Mr Stevens terrà gli occhi cocciutamente chiusi. Infatti a poco a poco scopriremo che, mentre il maggiordomo si preoccupava solo di servire al meglio Lord Darlington, la governante, Miss Kenton, tentava in tutti i modi, e invano, di stabilire un rapporto umano con lui. Stevens, barricato dietro la sua tanto onorabile “dignità”, si difendeva dalle emozioni e dagli scossoni della vita, usando il suo contegno e il suo aplombe come scudo. Dai momenti più drammatici, come la morte del padre, ai momenti goliardici (momenti ai quali rimane sempre estraneo vista la sua incapacità di capire e fare battute) Stevens è trincerato dietro la sua impassibilità e la sua compostezza. E così avviene anche nelle situazioni più umilianti, come quando Lord Darlington ed i suoi amici lo interrogano sadicamente su cose che non conosce, o nei momenti di toccante emozione, come quando sente piangere Miss Kenton e rimane paralizzato, non riuscendo a fare nulla per consolarla. Nel suo viaggio nella campagna inglese, e grazie all’incontro con Miss Kenton, Stevens finalmente riuscirà ad aprire gli occhi. E li aprirà per piangere e piangere ancora sul passato che è andato perduto, sul tempo che non torna indietro e sulla sensazione di fallimento che non può più nascondere a se stesso. Stevens si accorge di aver avuto una vita arida, una vita senza amore, non rischiarata nemmeno dalla convinzione di aver dedicato i propri servigi e i propri anni migliori ad un uomo moralmente elevato. La macchia è indelebile, la ferita non può essere ricucita ma, come la sera è il momento più atteso e desiderato della giornata, può forse la vecchiaia essere il momento in cui tirare le fila della propria vita, comprenderla e magari anche cambiarla? Si può davvero arrivare alla comprensione di sé e della propria vita in quell’ultimo momento di luce e pensare di poter mutare le cose in quel breve tempo che ci separa dalla notte eterna?
Questo è l’interrogativo che ci pone Kazuo Ishiguro, scrittore giapponese naturalizzato britannico, in Quel che resta del giorno, romanzo di fama internazionale dal quale, nel 1993, James Ivory ha tratto l'omonimo film con Anthony Hopkins ed Emma Thompson.

domenica 5 giugno 2011

THE TREE OF LIFE, Terrence Malick

L’ultimo attesissimo lungometraggio di Terrence Malick è stato presentato alla 64esima edizione del festival di Cannes e, tra molti applausi e altrettanti fischi, si è aggiudicato la Palma d’oro, eclissando artisti di altissimo livello (Lars Von Trier, Almodovar, Moretti e Sorrentino per citarne alcuni…).
Il film si apre su una tragedia: una madre riceve la notizia della precoce morte del figlio. La disperazione dilaga nella famiglia soprattutto nel fratello maggiore, Jack, uomo ormai adulto che, sconvolto dalla notizia, si addentra in un processo d’introspezione personale e di riflessione universale. La dimensione tragica dell’evento viene subito ridimensionata da una lunga sequenza dedicata al nascere della vita sulla Terra, in cui sono riassunti miliardi di anni attraverso una seria di immagini naturalistiche. L’estrema potenza visiva della sequenza induce alla riflessione cosmologica per creare un viaggio fisico (e metafisico) che ricorda molto quello di Bowman nel finale di 2001: Odissea nello spazio. A questa sequenza segue un lungo flashback sulla storia della famiglia. Nell’America degli anni ’50 un padre irascibile e autoritario (uno spigolosissimo Brad Pitt) e una madre spirituale e amorevole (l’angelica Jessica Chastain) crescono, tra gioie e conflitti, tre figli maschi. Il padre impone regole assurde (che lui stesso non rispetta) ed esige l’obbedienza completa e totale dai figli, mentre la madre li ricopre di amore e speranza, ma è troppo debole per opporsi all’arroganza del marito. Nel corso della loro infanzia i bambini conoscono l’amore, la meraviglia e la gioia, ma incontrano anche il dolore e l’esperienza della morte. Conoscono, in definitiva, l’albero della vita. Questo incontro-scontro con la Natura, madre amorevole ma anche matrigna crudele e insensibile, li porta a formulare dei dubbi sulla giustizia di Dio. Nel finale il film ritorna al presente, ad un presente irreale e metaforico, fuori dallo spazio-tempo: è l’emozionante dimensione dell’eternità, del sempre e del mai, dove la famiglia può riunirsi, ascoltare la voce del cosmo ed essere finalmente in pace.
The tree of life è un film che, fin dalla sua prima apparizione, ha diviso nettamente il pubblico: odio o amore, non ci sono vie di mezzo. Ci troviamo davanti ad un film difficile e raffinato, lento ed emozionante, un tipico esempio di “cinema del silenzio”, dove ciò che conta sono le immagini. La fotografia ed il montaggio sono gli elementi su cui, all’unanimità, questo film è stato proclamato un capolavoro. L’elemento dominante a livello visivo è quello dell’acqua, brodo primordiale dove è nata la Vita, fonte di nutrimento e simbolo di evoluzione nel suo duplice aspetto di distruttrice e di rigeneratrice. Come nel tipico stile di Malick (mi riferisco in primo luogo a La sottile linea rossa) la musica assolve una funzione importante nel suo sovrapporsi alle immagini, accompagnando lo spettatore in un intenso viaggio emotivo; al contrario il parlato è estremamente rarefatto, simbolico (un susseguirsi di frasi fatte e citazioni bibliche) e perfino superfluo.
Esteticamente perfetto, questo film non parla a tutti. Le immagini di Malick parlano alla parte più profonda di ognuno di noi, al nostro spazio più intimo, dove risiede il nostro rapporto con il Divino. Anche se Malick parla di Dio e cita la Bibbia, non si tratta di un film religioso, ma di un film spirituale, umano, terrestre, cosmico; un film sul legame profondo e fraterno che accomuna tutti gli esseri viventi di questo Pianeta e sull’importanza dell’amore: «se non ami, la tua vita passerà in un lampo».
Tutto il film è basato sul binomio Natura – Grazia. Prima della comparsa dell’uomo sul mondo dominava la Natura, l’istinto e l’inconsapevolezza, ma l’uomo è riuscito a superare lo stadio naturale, per acquisire un livello di consapevolezza su se stesso e sul mondo che l’ha portato a conoscere la Grazia. La Grazia si è manifestata in diverse forme durante la lunga storia dell’umanità: è stata mito, religione, filosofia, arte, scienza… In qualsiasi forma si sia mai manifestata la sua vera realtà si riconosce sempre e Malick ce la fa toccare con un dito, ricordandoci che: «ci sono due vie per affrontare la vita, la via della Natura e la via della Grazia, sta a te scegliere quale delle due seguire».

martedì 31 maggio 2011

NON LASCIARMI, Kazuo Ishiguro


Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro è un romanzo ambientato in Inghilterra, patria adottiva dello scrittore, e cronologicamente situabile in un presente irreale che non avremmo mai voluto nemmeno ipotizzare. Già dalle prime pagine del romanzo la voce narrante si svela: si chiama Kathy H., ha trentun’anni e lavora come “assistente”. Di questo lavoro non sappiamo granché, se non che gli “assistenti” lavorano insieme ai “donatori”. Chi sono queste due categorie di persone? Lo scopriremo a poco a poco seguendo il racconto autobiografico di Kathy, il suo viaggio alla riscoperta del passato.
Kathy ricorda la sua infanzia, trascorsa in un fantastico college, Hailsham, dove gli studenti passavano il tempo dipingendo, scrivendo poesie, facendo sport, studiando filosofia, arte e letteratura. Le attività proposte dal college si dividono tra quelle che stimolano la creatività e la libertà d’espressione dei ragazzi e quelle che tengono il fisico in salute. Fin qui tutto normale ma poi, a poco a poco, iniziamo a percepire qualcosa di strano in Hailsham. Nessuno dei suoi abitanti, ad esempio, ha mai avuto alcun tipo di contatto col resto del mondo né ha mai saputo che cos’è una famiglia: gli studenti sono sempre stati abituati a cavarsela da soli, aiutandosi gli uni con gli altri, sotto la costante sorveglianza dei tutori. Kathy e i suoi amici sono vissuti in questo ovattato ed asettico mondo fino ai 16 anni ma, fin da piccoli, ne hanno percepito le stranezze e le incongruenze; così hanno tentato di indagare, cercando di cogliere indizi sul proprio destino nel “detto e non detto” dei tutori. Questa indagine prosegue finché una tutrice, Miss Lucy, contrariamente alle direttive del college, non mette definitivamente  le cose in chiaro: «Diventerete adulti, poi, prima di invecchiare, ancor prima di diventare persone di mezz’età, comincerete a donare i vostri organi vitali. Ecco per cosa siete stati creati, ciascuno di voi». La rivelazione non ha un forte impatto sulla vita dei ragazzi che, pur senza parlarne e senza avere mai avuto le idee chiare in proposito, inconsciamente avevano da sempre percepito un’eventualità simile. Così, senza dare troppo peso a questa devastante scoperta, i ragazzi continuano ad andare avanti, giorno dopo giorno, come degli adolescenti qualsiasi: completamente assorbiti dalla propria vita, dall’amore e dall’amicizia.
Kathy ricorda con rimpianto i suoi migliori amici: Ruth e Tommy. I tre ragazzi crescono insieme e un’affinità speciale sembra legare Kathy a Tommy finché, agli inizi dell’adolescenza, Tommy non si fidanza con Ruth. È l’inizio di un triangolo amoroso che si protrarrà negli anni, anche dopo Hailsham, quando i ragazzi si trasferiranno insieme nei Cottages. L’immobilismo rassegnato di queste dinamiche sentimentali si interromperà solo con la partenza di Kathy dai Cottages. Da quel momento in poi l’armonia sarà rotta e i tre amici si rincontreranno solo nei drammatici momenti finali delle donazioni.
Questo romanzo è in primo luogo la struggente storia di un amore che si consuma negli anni e che vive di speranze impossibili, ma è anche un dramma visionario, oscuro e potente, in cui vediamo l’egoistica società dell’uomo spingersi ai limiti dell’etica, creando mostruosità ed ingiustizia. Al tempo stesso Non lasciarmi è anche un viaggio nella solitudine e nella disperazione che ogni essere umano si porta dentro: la fragilità della vita è infatti un’ombra che minaccia di distruggere, presto o tardi, tutto ciò che la vita ha costruito. La creatività e l’amore sembrano essere, per i ragazzi di Hailsham, la chiave per dare una svolta positiva alla propria vita, per ottenere concretamente un “rinvio” della propria morte; in realtà, più che un aiuto tangibile, con l’amore e con la creatività i ragazzi hanno avuto i mezzi per condurre un’esistenza dignitosa e consapevole, oltre che la possibilità di tramandare la propria storia.
L’interrogativo sorge spontaneo: perché nel mondo di Ishiguro non esiste la ribellione? Perché nessuno si sottrae a questo trattamento? I ragazzi di Hailsham non sono degli sprovveduti, degli ignoranti: conoscono Shakespeare e la filosofia, sanno bene cos'è l’umanità. Forse il perenne stato di precarietà, di isolamento e di ignoranza in cui sono stati allevati e cresciuti non gli ha dato la consapevolezza dei loro diritti di esseri umani; o forse questo stato li ha portati proprio all’accettazione del loro destino di “cloni”, così come ogni essere umano accetta ed affronta la propria morte. Il terribile sfogo finale di Tommy sembra essere finalmente il preludio ad un cambiamento, ma alla fine prevale sempre la rassegnazione al proprio destino.
Dicono che per ogni uomo l’infanzia finisca nell’esatto momento in cui avvenga la scoperta della propria morte. Lo stesso, in maniera più crudele e spietata, è successo ai ragazzi di Hailsham: «È come passare davanti ad uno specchio davanti al quale sei passata ogni giorno della tua vita, e che all’improvviso riflette qualcos’altro, qualcosa di strano e inquietante».

mercoledì 25 maggio 2011

LA VITA IN VERSI, Giovanni Giudici

Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l'evidenza dei vivi.

Ma non dimenticare che vedere non è

sapere, nè potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.

Nel sotto e nel soprammondo s'allacciano

complicità di visceri, saettano occhiate
d'accordi. E gli astanti s'affacciano

al limbo delle intermedie balaustre:

applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime - l'infame, l'illustre.

Inoltre metti in versi che morire

è possibile a tutti più che nascere
e in ogni caso l'essere è più del dire.

 

Giovanni Giudici 
(Porto Venere, 26 giugno 1924 – La Spezia, 24 maggio 2011)

POSSESSIONE, UNA STORIA ROMANTICA, Antonia S. Byatt

Roland Michell è un ricercatore del Prince Albert College di Londra e, come ogni giovane studioso, conduce la sua modesta esistenza completamente assorbito dalla ricerca letteraria. La passione per l’opera del poeta vittoriano inglese Randolph Henry Ash sembra essere l’unica cosa che lo riscatta dal torpore di una vita di rinunce e frustrazioni. Oltre la letteratura, la vita di Roland si può racchiudere nel quadretto del suo squallido e umido appartamento seminterrato che odora di pipì di gatto e dove vive con la fidanzata Val, a cui è legato ormai solo dall’abitudine e dalla dipendenza economica. Un giorno, sfogliando un volume di Vico appartenuto ad Ash, Roland trova alcuni manoscritti inediti del poeta e, tra questi, due abbozzi di lettere per una donna misteriosa. Nel giro di pochi minuti prende la decisione più importante della sua vita: riconsegna il volume e tiene per sé le lettere, nascondendo a tutti il suo segreto. Dopo alcune ricerche Roland ipotizza che la donna misteriosa sia la poetessa vittoriana Christabel La Motte e, procedendo nella sua indagine, decide di consultare un’esperta in materia: è così che entra in scena la dottoressa Maud Bailey, l’unica persona che Roland deciderà di mettere al corrente della sua scoperta. I due studiosi in poco tempo riescono a ritrovare la corrispondenza segreta tra i due poeti: infuocate lettere d’amore che narrano la nascita di una passione bruciante e ineluttabile. Roland e Maud sanno che questa scoperta potrebbe rivoluzionare l’interpretazione dell’opera di entrambi i poeti e si guardano bene dal metterne al corrente amici, colleghi e professori, iniziando una segreta collaborazione basata sull’investigazione delle opere letterarie e la ricerca di indizi nei luoghi dove Christabel e Randolph hanno vissuto e viaggiato. La magica intesa che si crea tra i due ricercatori cresce delicatamente e timidamente, per il carattere mite di entrambi, giorno dopo giorno, fino ad esplodere nel finale del libro. A poco a poco diversi colleghi e rivali accademici di Roland e Maud iniziano a sospettare qualcosa dei loro strani spostamenti e iniziano ad indagare per proprio conto, mettendosi sulle loro tracce. Così, alla fine della storia, un nutrito gruppo di intellettuali, curiosi, ricercatori e cacciatori letterari si trova a condividere lo scioglimento del mistero e la conclusione dell’avventura.
La “possessione” del titolo è l’innamoramento che ha travolto le vite dei due poeti vittoriani, costringendoli a sentire la profonda “necessità” di amarsi nonostante le avversità; ma è anche la passione travolgente della ricerca e della conoscenza che si è impossessata di Roland e Maud e che li ha portati a scoprirsi e ad amarsi l’uno l’altro. Le due storie d’amore scorrono e si evolvono parallelamente, aldilà del tempo e dello spazio. In questo modo la Byatt riesce a dar voce a due mondi diversi, l’Inghilterra vittoriana e quella attuale, mostrandone le divergenze, ma soprattutto le similarità, attraverso l’universalità di certe tematiche (l’innamoramento, il desiderio di libertà, l’amore per la poesia e per la ricerca della Verità). La struttura del romanzo è quella di un libro giallo, dove gli investigatori portano avanti una meticolosa indagine, tra scoperte, suspence e colpi di scena, fino allo scioglimento finale dell’enigma. Ma in questo caso la materia di indagine sono la vita e l’amore di due poeti, gli indizi sono le loro opere e i migliori investigatori sono i  critici letterari: essi leggono, studiano, confrontano le opere-indizi, trovano corrispondenze, esaminano le biografie, fanno ipotesi e costruiscono teorie. Il romanzo è sapientemente costruito dal un punto di vista letterario, infatti più di metà dell’opera è costituita dagli "indizi": lettere, poesie, stralci di poemi, saggi. Per le poesie di Randolph e di Christabel, la Byatt ha dichiarato di essersi ispirata a poeti realmente vissuti quali Milton, Browning, Tennyson, Coleridge ed Emily Dickinson.
Abbiamo dunque di fronte una magnifica costruzione di thriller letterario in cui anche il lettore viene completamente posseduto da tutti gli elementi che si intrecciano nel romanzo: l’elemento passionale, la satira nei confronti del mondo accademico, l’amore per la poesia e il desiderio di arrivare allo scioglimento dell’intreccio, per poter finalmente conoscere e scoprire la Verità.
 Possessione è stato tradotto in 27 lingue ed è il romanzo più famoso della Byatt.