venerdì 20 maggio 2011

MY SON, MY SON WHAT HAVE YE DONE?, Werner Herzog

Un crimine inaspettato, in una via tranquilla, sembra un caso semplicissimo, ma il mistero non è chi sia stato, o come abbia fatto, ma perché…

Un’anziana donna è stata uccisa, la polizia accorre ad indagare e scopre immediatamente il colpevole: si tratta di Brad (un ottimo Micheal Shannon), figlio della vittima, che, compiuto il feroce delitto, si barrica in casa, minacciando di avere con sé alcuni ostaggi. Il detective Havenhurst (Willem Defoe), chiamato a gestire la situazione e ad indagare, inizia un viaggio a ritroso alla scoperta della passato di Brad tramite i racconti della fidanzata Ingrid (Chloë Sevigny) e dell'insegnante di recitazione (Lee Meyers).
Con Ingrid scopriamo un Brad succube di una madre tirannica e castratrice (Grace Zabriskie) dalla quale il ragazzo non è mai riuscito ad emanciparsi e con cui ha continuato a vivere in una claustrofobica casa rosa confetto. Grazie al suo insegnante di recitazione ripercorriamo invece la messa in scena dell’Elettra di Sofocle, storia del primo mitico matricidio, nella quale Brad doveva interpretare proprio Oreste, il figlio omicida.
Brad dunque è un attore, «ingannali e truffali» è il suo motto ma, attraverso la lente distorta della pazzia, nella sua mente vita e teatro finiscono per coincidere. Il teatro perde così la sua funzione rappresentativa e catartica, l’uccisione della madre prevaricatrice non avviene a livello simbolico e il ragazzo continua a vivere la sua esistenza asfittica riuscendo a scrivere la parola “fine” solo con un atto tragicamente concreto. L’atto atavico e definitivo che ha segnato ogni civiltà e che è stato stigmatizzato e purificato nell’arte, viene dunque a ripetersi.
I momenti di fermo immagine (accompagnati spesso dallo sguardo in camera degli attori) assicurano invece al pubblico la costante consapevolezza della finzione. L’intento del film non è quello di essere realistico, ma quello di dividere nettamente realtà e finzione, ponendosi come un’opera di teatro moderno, come una moderna “Orestea”, ispirata ad un fatto di cronaca realmente accaduto.
Un’altra sequenza importante è quella che ritrae l’evento che ha cambiato e modificato la vita di Brad: un’escursione in kayak in un fiume in Perù dove tutti i suoi compagni hanno perso la vita e che lui ha categoricamente rifiutato di affrontare, guidato dalla sua voce interiore. Da quel momento, salvato da morte certa, Brad inizia ad ascoltare e a seguire quella voce, che lo spingerà nel baratro della pazzia. Così il suo unico momento di contatto simbiotico col divino, avvenuto nella foresta peruviana, verrà vissuto dal fragile Brad come la via per la rivalsa individuale. Da quel momento, facendosi chiamare Farouk e riconoscendo Dio sui barattoli della farina d'avena, precipiterà nell’alienazione mentale tra manie di grandezza e deliri mistico-religiosi.
Le scene ambientate in Perù portano l’inconfondibile marchio di fabbrica di Herzog: le montagne e il fiume sono forze incontaminate e sovrane con cui l’uomo deve misurarsi in un’estrema sfida in cui il limite imposto dalla natura sembra davvero invalicabile; superarlo significa perdersi, e perire.
Nella pellicola si sente molto anche l’impronta di David Lynch, produttore del film. I fermo immagine, le lunghe carrellate panoramiche, l’apparizione del nano, i fenicotteri rosa, la casa surreale della madre (personaggio interpretato da un’attrice lynchiana di lunga data)… Tutto questo contribuisce a creare quell’atmosfera alienata ed alienante dei film di Lynch.
Due maestri del cinema danno alla luce un horror inquietante e straniante, privo di sangue, di mistero e di eventi soprannaturali, dove l’elemento mostruoso è rappresentato esclusivamente dalla terribile forza distruttiva della pazzia umana.

1 commenti:

Dante ha detto...

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